IV° Domenica di Pasqua

Anno Liturgico B
29 Aprile 2012

Il buon pastore da la propria vita per le pecore

LETTURE: Vangelo, Prima lettura e Seconda lettura

Dal vangelo secondo Giovanni (Gv 10,11-18)

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

PRIMA LETTURA – Dagli Atti degli Apostoli (At 4,8-12)

In quei giorni, Pietro, colmato di Spirito Santo, disse loro:
«Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo, e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato, sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato.
Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo.
In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati».

SECONDA LETTURA – Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo (1Gv 3,1-2)

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.

LA LETTURA DEI PADRI: per continuare a pregare

GESÙ, PORTA DELL’OVILE E PASTORE DEL GREGGE
Tommaso d`Aquino, Ev. sec. Ioan., 10, 3, 1s.

Il Signore propone la parabola della porta dell`ovile e del buon pastore. Chi non entra nell`ovile attraverso la porta è un ladro e un bandito. Chi entra per la porta, è il pastore del gregge. Il Signore applica a se stesso la similitudine dicendo: “Io sono la porta e Io sono il buon pastore”.
Quanto alla similitudine della porta, mentre afferma d`esser lui la porta dell`ovile, parla anche di ladri e banditi e afferma: “Tutti quelli che son venuti prima di me son ladri e banditi”. E la similitudine è introdotta con le parole: “Disse loro, dunque, di nuovo Gesù: – In verità, in verità vi dico”; e la solennità della formula introduttiva vuole evidentemente richiamare l`attenzione dei discepoli e sottolineare l`importanza di quanto il Maestro vuol dire.
“Io sono la porta”: L`ufficio della porta è quello d`immettere nella casa. E questo s`addice bene a Cristo, perché, chi vuol entrar nel mistero di Dio, bisogna che passi per lui (Sal 117,10): “Questa è la porta del Signore” – Cristo – “e i giusti entreranno in essa”. Precisa: “Porta del gregge”, perché non solo i pastori sono immessi nella Chiesa presente e poi nella beatitudine eterna attraverso Cristo, ma tutto il gregge, com`è detto appresso: “Le mie pecore ascoltano la mia voce… e mi seguono, e io do loro la vita eterna”.
Poi, quando dice: “Tutti quelli che son venuti prima di me son ladri e banditi”, dice chi siano i ladri e i banditi e quali ne sian le note.
Quanto alla identificazione dei ladri e dei banditi, bisogna evitar l`errore dei Manichei, i quali da queste parole presumono di ricavar la condanna di tutti i Patriarchi e Profeti del Vecchio Testamento. Ma l`interpretazione dei Manichei è falsa per tre motivi.
Prima di tutto perché contrasta con le parole precedenti della stessa parabola. Infatti tutti questi venuti prima che son condannati come ladri e banditi son certamente quegli stessi li cui il Signore ha detto: “Chi non entra per la porta è ladro e bandito”. Non sono, dunque, ladri e banditi coloro che semplicemente son venuti “prima” di Cristo, ma coloro che non son passati “attraverso la porta”, che è Cristo. E` chiaro, allora, che Patriarchi e Profeti del Vecchio Testamento, entrarono attraverso la porta, che è Cristo, perché proprio Cristo, che doveva venire, li mandava; lui, fatto uomo nel tempo, ma presente nell`eternità, come Verbo di Dio (Eb 13,8: “Gesù Cristo ieri e oggi e in tutti i secoli”). I Profeti poi furono mandati nel nome del Verbo e della Sapienza (Sap 7,27: “La Sapienza di Dio si diffonde attraverso i popoli nelle anime sante dei Profeti e li fa amici di Dio”). Perciò, a proposito dei Profeti, leggiamo continuamente «La Parola di Dio è giunta al Profeta», proprio perché, attraverso la comunicazione del Verbo, i Profeti annunziarono la parola di Dio.
“Coloro che sono venuti”: Questo verbo sta a dire che il loro venire non dipendeva da una divina missione, ma era una loro presunzione, e di tali Geremia disse (Ger 22,21): “Io non li mandai, ma essi correvano”. Questi, certo, non erano messaggeri del Verbo di Dio (Ez 13,3: “Guai ai profeti sprovveduti, che seguono il loro stesso spirito e non vedono niente”). Ma questo non lo si può dire dei Patriarchi e Profeti del Vecchio Testamento, perché essi erano proprio figure e annunziatori di Cristo.
Ed è anche falsa l`interpretazione dei Manichei per la conseguenza che deriva dalle parole: Le pecore non diedero loro ascolto. Il segno, quindi, di riconoscimento dei ladri e banditi sta nel fatto che le pecore non li ascoltarono. Ma questo non lo si può dire così in generale dei Patriarchi e dei Profeti; i quali furono vere guide del popolo d`Israele e nella Scrittura sono biasimati coloro che non li ascoltarono (At 7,52: “Quale dei Profeti non hanno perseguitato i vostri padri?” e Mt 23,37: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i Profeti e tiri sassi a quelli che sono stati mandati a te”!).
Bisogna dire dunque: “Tutti quelli che son venuti”, non attraverso me, senza divina ispirazione e mandato, e con l`intenzione di cercare non la gloria di Dio, ma la propria, questi sono ladri, in quanto si appropriano di un`autorità d`insegnamento che non gli spetta (Is 1,23: “I tuoi principi infedeli sono alleati di ladri”); e “sono banditi”, perché uccidono attraverso la loro malvagia dottrina Mt 21,13: “Voi ne avete fatto una spelonca di ladri”; e Os 6,9: “Compagno di ladri, che ammazzano coloro che passano per la strada”). Ma “costoro”, cioè i ladri e banditi, “le pecore non li ascoltarono”, almeno in modo costante, perché altrimenti non avrebbero fatto più parte del gregge di Cristo, perché “non segue un forestiero e fugge da lui”.
“Io sono la porta; chi entra attraverso me, sarà salvo”.
Qui il Signore, prima di tutto, vuol dire che il diritto di uso della porta è suo e che fa parte del piano della salvezza. Il modo della salvezza è accennato nelle parole: “Potrà entrare e uscire”. La porta salva quelli che son dentro, trattenendoli dall`esporsi ai pericoli, che son fuori, e li salva, impedendo al nemico di entrare. E questo s`addice a Cristo, poiché in lui abbiamo protezione e salvezza; ed è questo ch`egli vuol dire con le parole: “Se uno entrerà attraverso me” nella Chiesa, “sarà salvo”. Aggiungi anche la condizionale, se persevererà (At 6,12: “Non è stato dato agli uomini nessun altro nome nel quale salvarsi”; e Rm 5,10: “Tanto più saremo salvi nella sua vita”).
Il modo della salvezza è significato con le parole: “Entrerà e uscirà e troverà pascoli”; ma queste parole possono essere spiegate in quattro modi.
Secondo il Crisostomo non significano altro che la sicurezza e la libertà di coloro che sono con Cristo. Infatti, colui che non entra per la porta, non è padrone di entrare e uscire quando vuole; lo è, invece, colui che entra per la porta. Dicendo, dunque: “entrerà e uscirà”, vuol significare che gli apostoli, in comunione con Cristo, entrano con sicurezza e hanno accesso ai fedeli, che sono nella Chiesa, e agli infedeli, che ne son fuori, poiché essi sono stati costituiti padroni del mondo e nessuno li può cacciare fuori (Nm 27,16: “Il Signore di tutti gli spiriti provveda per il popolo un uomo che possa entrare e uscire, perché il popolo del Signore non sia come un gregge senza pastore”). “E troverà pascoli”, cioè la gioia nella conversione e anche nelle persecuzioni che gli capiterà di affrontare per il nome di Cristo (At 5,41: “Gli Apostoli uscivano dal sinedrio pieni di gioia, perché erano stati fatti degni di subir ignominia per il nome di Gesù”).
La seconda spiegazione è di sant`Agostino nel commento al Vangelo di Giovanni.
Chi fa il bene realizza un`armonia tra ciò ch`è dentro di lui e con ciò ch`è fuori di lui. Al di dentro dell`uomo c`è lo spirito, al di fuori c`è il corpo (2Cor 6,16: “Sebbene il nostro uomo esteriore si corrompa, l`uomo interiore si rinnova di giorno in giorno”). Colui dunque, ch`è unito a Cristo, “entrerà” attraverso la contemplazione per custodire la sua coscienza (Sap 8,16: Entrando nella mia casa – la coscienza -, “mi riposerò con essa” -la Sapienza -); e “uscirà” fuori, per controllare il suo corpo con le opere buone (Sal 103,23: “Uscirà l`uomo per i suoi impegni e per il suo lavoro fino a sera”); “e troverà pascoli”, nella coscienza pura e devota (Sal 16,15: “Verrò al tuo cospetto, mi sazierò alla vista della tua gloria”) e anche nel lavoro (Sal 125,6: “Al ritorno verranno esultanti, portando i loro covoni”).
La terza interpretazione di san Gregorio.
“Entrerà” nella Chiesa, credendo (Sal 41,5: “Andrò dov`è una tenda meravigliosa”), il che vuol dire entrare nella Chiesa militante; “e uscirà”, cioè passerà dalla Chiesa militante alla Chiesa trionfante (Ct 3,11: “Uscite, figlie di Sion, e vedete il re Salomone col diadema di cui lo cinse sua madre il giorno delle nozze”); “e troverà pascoli” di dottrina e di grazia nella Chiesa militante (Sal 22,2: “Mi pose nel luogo del cibo”); e pascoli di gloria nella Chiesa trionfante (Ez 34,14: “Pascolerò le mie pecore in pascoli ubertosissimi”).
La quarta spiegazione è nel libro “De Spiritu et Anima”, che viene erroneamente attribuito ad Agostino; e ivi è detto che i santi “entreranno” per contemplare la divinità di Cristo e “usciranno” per ammirare la sua umanità; e nell`una e nell`altra “troveranno pascoli”, perché nell`una e nell`altra gusteranno le gioie della contemplazione (Is 33,17: “Vedranno il re nel suo splendore”).
Si tratta poi del ladro. Il Signore prima dice quali sono le proprietà del ladro e poi afferma che egli ha le proprietà opposte a quelle del ladro: “Io son venuto, perché abbiano la vita”. Dice, dunque, che quelli che non entrano per la porta – che è lui – sono ladri e banditi e la loro condizione è malvagia. Infatti, “il ladro non viene che per rubare”, per portar via ciò che non è suo, e questo avviene, quando eretici e scismatici tirano a sé coloro che appartengono a Cristo. Il ladro poi viene “per uccidere”, diffondendo una falsa dottrina o costumi perversi (Os 6,9: “Compagno di ladri che ammazzano sulla strada quelli che vengono da Sichem”). Il ladro viene ancora, in terzo luogo, per distruggere, avviando alla dannazione eterna le sue vittime (Ger 50,6: “Il mio popolo è diventato un gregge perduto”). Queste condizioni non son certo nel buon pastore.
“Io venni perché abbiano la vita”. E pare che il Signore volesse dire: Costoro non son venuti attraverso me; se fossero venuti attraverso me, farebbero cose simili a quelle che faccio io, ma essi fanno tutto l`opposto; essi rubano, uccidono, distruggono. “Io son venuto perché abbiano la vita” della giustizia, entrando nella Chiesa militante attraverso la fede (Eb 10,38; Rm 1,17: “Il giusto vive di fede”). Di questa fede, è detto in Gv 3,14: “Noi sappiamo che siamo stati trasferiti dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. E perché l`abbiano più abbondantemente”; abbiano cioè la vita eterna all`uscita dal corpo; la vita eterna della quale appresso è detto (Gv 17,8) ch`essa consiste “nel conoscere te solo vero Dio”.
Che Cristo poi sia pastore è evidente dal fatto che, come il gregge è guidato e alimentato dal pastore, così i fedeli sono alimentati dalla dottrina e dal corpo e sangue di Cristo (1Pt 2,25: “Eravate pecore senza pastore, ma ora vi siete rivolti al pastore delle vostre anime”; e Is 40,11: “Pascolerà i suoi, come il pastore pascola il suo gregge”). Ma, per distinguersi dal ladro e dal cattivo pastore, aggiunge l`aggettivo “buono”. Buono perché compie l`ufficio del pastore, come si chiama buon soldato colui che compie l`ufficio del soldato. Ma, poiché Cristo ha già detto che il pastore entra per la porta e che lui stesso è la porta, bisogna concludere ch`egli entra nell`ovile attraverso se stesso. Ed è proprio così, perché egli manifesta se stesso e attraverso se stesso conosce il Padre. Noi, invece, entriamo attraverso lui, perché attraverso lui otteniamo la gioia. Ma guarda che nessun altro è la porta, se non lui, perché nessun altro è la luce vera; gli altri son luce riflessa. Lo stesso Battista non era lui la luce, ma uno che testimoniava per la luce. Ma di Cristo è detto: “Era la luce vera che illumina ogni uomo” (Gv 1,8). Perciò, nessuno presume di esser la porta; solo Cristo poté dir questo di sé; ma concesse anche ad altri di essere pastori: difatti, Pietro fu pastore, e tutti gli apostoli e tutti i buoni vescovi furono pastori (Ger 3,5: Vi darò dei pastori secondo il mio cuore). Sebbene però i capi della Chiesa sian tutti pastori, tuttavia egli dice al singolare: “Io sono il buon pastore”, per suggerire la virtù della carità. Nessuno infatti è pastore buono, se non diventa una sola cosa con Cristo, attraverso la carità, e si fa membro del vero pastore.
Ufficio del pastore è la carità; perciò dice: “Il pastore buono dà la vita per le sue pecore”. Bisogna sapere che c`è una differenza tra il pastore buono e il cattivo; il pastore buono guarda al vantaggio del gregge; il cattivo guarda al proprio vantaggio; e questa differenza è segnalata in Ez 34,2: “Guai ai pastori che pascono sé stessi. Ma non è il gregge che dovrebbe essere pascolato dal pastore”? Colui, dunque, che si serve del gregge, per pascolar se stesso, non è un pastore buono. E da questo deriva che il pastore cattivo, anche quello materiale, non vuole subire nessun danno per il suo gregge, perché non si cura del bene del gregge, ma del proprio. Invece il pastore buono, anche quello materiale, si sobbarca a molte cose per il gregge, perché ne vuole il bene; perciò, Giacobbe in Gen 31,40, disse: “Giorno e notte ero bruciato dal freddo e dal caldo”. Ma nel caso di pastori materiali, non si chiede che un buon pastore rischi la sua vita per la salvezza del gregge. Ma, poiché la salute spirituale del gregge è più importante della vita corporale del pastore, quando è in pericolo la salute eterna del gregge, il pastore spirituale deve affrontare anche la morte, per il suo gregge. Ed è questo che il Signore dice con le parole: “Il buon pastore dà la sua vita per le sue pecore”; è pronto a dar la vita sua temporale con responsabilità e amore. Due cose son necessarie: che le pecore gli appartengano e che le ami; la prima, senza la seconda, non basta. Di questa dottrina si fece modello Gesù Cristo. Leggi in 1Gv 3,16: Se Cristo ha offerto la sua vita per noi, dobbiamo anche noi offrire la nostra vita per i nostri fratelli.

DAI CIELI È VENUTO IL PASTORE PER RICONDURRE LE PECORE SMARRITE AI PASCOLI DI VITA
Dai «Discorsi» di san Pietro Crisologo, vescovo.

Che con Cristo sia venuto il buon Pastore sulla terra lo dice egli stesso: «lo sono il buon pastore.
Il buon pastore offre la vita per le pecore» (Gv 10,11). Egli è anche il maestro, che va cercando compagni e collaboratori per sanare tutto il mondo, e dice: «Acclamate al Signore, voi tutti della terra» (Sal 99,2). Quindi dovendo risalire al cielo affida le sue pecore a Pietro, perché le guidi in sua vece: «Pietro, mi ami? Pasci i miei agnelli». È per non turbare con una forma autoritaria il fragile inizio di un ritorno, ma sostenerlo con la bontà, ripete: «Pietro, mi ami? Pasci le mie pecore». Raccomanda le pecore, raccomanda i loro nati, perché il pastore sapeva che le sue pecore sarebbero state feconde. «Pietro, mi ami? Pasci i miei agnelli» (Gv 21,15-17).
A questi agnelli Paolo, collega del pastore Pietro, porgeva latte abbondante, dicendo: «Vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido». Sentiva questo il santo re Davide, perciò esclama: «Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce» A chi ritorna ai pascoli della pace evangelica dopo tanti gemiti di guerre, dopo una triste vita di sangue, il versetto seguente annunzia la gioia del servizio. L’uomo era schiavo del peccato, era prigioniero della morte, incatenato dai vizi. E a questi cattivi padroni prestava una miserabile servitù. Quando non fu triste l’uomo sotto il peccato? Quando non pianse sotto il dominio della morte? Quando non si disperò, oppresso dal cumulo dei vizi, o dei delitti? Perciò dava gli ultimi aneliti, mentre sopportava sì crudeli padroni. Quando dunque il profeta ci vide liberi, ritornati all’obbedienza al Creatore, alla grazia del Padre, al servizio volontario dell’unico Padrone buono, giustamente esclama: «Servite il Signore nella gioia, presentatevi a lui con esultanza» (Sal 39,2): tutto ciò che colpa e rimorso avevano tolto, la grazia e l’innocenza lo restituiscono.
«Noi siamo suo popolo e gregge del suo pascolo» (Sal 99,3). È confermato più volte nelle Scritture che dal Cielo sarebbe venuto un pastore, il quale avrebbe richiamato le pecore erranti, mal ridotte dai pascoli infetti, per condurle con supremo giubilo ai pascoli della vita. «Varcate le sue porte con la confessione»: solo la confessione ci fa entrare per la porta della fede. «Varcate le sue porte con inni di grazie, i suoi atri con canti di lode; lodatelo, benedite il suo nome» (Sal 99,4): quel nome per cui siamo stati salvati e al quale «ogni ginocchio si piega, nei cieli, sulla terra e sotto terra». «Poiché buono è il Signore, eterna è la sua misericordia» (Sal 99,4). Veramente soave è la sua misericordia: unicamente per essa, si è degnato cancellare l’amarissima sentenza di condanna di tutto il mondo. «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29).

CRISTO FU BUON PASTORE FINO A DARE LA SUA VITA PER NOI
Da «Il Pedagogo» di Clemente Alessandrino

Noi che siamo ammalati, abbiamo bisogno del Salvatore: smarriti,abbiamo bisogno della sua guida;ciechi,di lui che ci porti alla luce; assetati, abbiamo bisogno della fonte di vita, dalla quale chi beve non ha più sete; morti, abbiamo bisogno della vita; pecore, del pastore; bambini, del pedagogo; insomma, tutta la nostra natura umana ha bisogno di Gesù. Se si vuole,si può apprendere la somma sapienza che c’insegna il santissimo pastore e maestro, l’onnipotente Verbo del Padre,quando servendosi dell’allegoria si proclama pastore delle pecore. È anche pedagogo dei bambini; infatti, rivolgendosi ai pastori d’Israele, descrive la sua giusta e salutare sollecitudine per bocca di Ezechiele: Fascerò la pecora ferita, curerò quella malata, ricondurrò all’ovile quella smarrita e le pascerò sul mio monte santo (cfr Ez 34,16).
Ecco le promesse del buon pastore. Pasci dunque noi bambini come pecore. Sì, o Signore, nutrici coi pascoli della tua giustizia. O maestro, pasci le tue pecore sul tuo santo monte: la Chiesa, che sta in alto, supera le nubi, tocca i cieli. Sarò loro pastore, dice, e sarò in mezzo a loro (cfr Ez 34,24).
Egli vuol salvare la mia carne rivestendomi della tunica dell’incorruzione, perciò ha consacrato il mio corpo. «Prima che mi invochino, io risponderò» (Is 65,24) .Mi hai esaudito più presto di quanto mi aspettassi, Signore. E se usciranno di strada, non cadranno, dice il Signore. Non cadremo nella corruzione, perché siamo riportati all’incorruzione da lui stesso che ci tiene per mano (cfr Sal 36,24). Lo ha detto lui, egli stesso lo ha voluto. Tale è il nostro pedagogo, davvero buono. Non sono venuto, dice, «per essere servito, ma per servire» (Mc 10,45). Perciò nel vangelo è detto che era «stanco» (Gv 4,6) colui che si è affaticato per noi, promettendo anche di «dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). Dimostra cosi di essere lui solo il buon pastore.
Generoso e magnifico è colui che giunge al punto di dare la sua vita per noi. Veramente a servizio degli uomini e pieno di bontà, egli che, potendo essere il Signore dell’uomo, volle essere suo fratello. Buono fino al punto di morire per noi!

Trascrizione dell’Omelia

Ognuno di noi è creato grazie a una Parola che Dio ha pronunciato sin dall’eternità, per così dire quella Parola è un po’ il nostro nome, la nostra identità, ma è anche quello che racchiude la nostra storia, piena di desideri, buone cose, ma anche tentazioni, esperienza della nostra fragilità. Ora, noi temiamo sempre che qualcuno venga a chiamarci con il nome sbagliato, che possiamo trovarci in imbarazzo, rispetto alla nostra identità. Il buon pastore, invece, ci viene incontro e ci chiama con il nostro nome, pronuncia quella Parola con la quale siamo stati pensati, creati, salvati e amati per sempre. È in questa fiducia che chiediamo al Signore di perdonarci i nostri peccati, la nostra stolta mediocrità, di ripararci dalla nostra cattiva esperienza di fede, di darci la possibilità di entrare nel suo regno consapevoli della vocazione che ci ha dato.

La Parola [Gv 10, 11-18 di seguito v 18] che Gesù ha pronunciato nel capitolo dieci del Vangelo di Giovanni, durante il suo ministero pubblico, è stata ascoltata dai suoi discepoli, la hanno udita gli Apostoli, ma sicuramente non la hanno compresa, come non l’hai colta tu. Questo discorso di offrire la vita e poi riprenderla, che dice: Nessuno me la toglie, io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo, si intende bene che non è comprensibile, e non lo era neanche a loro. Devono conoscere l’esito di questa storia, la fine della vita di Gesù, devono entrare con Lui dentro uno sconcerto incredibile, quello della passione, sperimentare il fallimento totale, che noi bypassiamo sempre, perché pensiamo che si possa giungere alla felicità senza soffrire. È questa la nostra tentazione più grande, ed è così tanto grande, così forte, così presente, che persino la invochiamo, dicendo a Dio: non farci soffrire, toglici questa sofferenza.
Il Figlio di Dio ci ha mostrato, invece, che il fallimento è l’unica possibilità che abbiamo di far morire quell’atteggiamento profondamente orgoglioso, radicato in noi sin dalla nostra nascita e con il quale abbiamo fatto e facciamo sempre i conti. Quale? L’idea che possiamo raggiungere la felicità e non compiere la nostra missione, pervenire a qualcosa che sia per noi e non qualcosa che è secondo Dio e per la salvezza degli uomini.
Gesù indica che è necessario passare per la strettoia della sofferenza, affermando: io ho fatto lo stesso, ho dato la mia vita, l’ho offerta, per poi riprendermela di nuovo.
L’uomo che ascolta queste parole capisce che se il Signore, che ha la nostra stessa carne e vive la nostra stessa vicenda umana, fino alla sofferenza, all’umiliazione e alla morte, può riprendersi la vita, Costui può anche ridare la vita, può ridarla pure a noi, può farci destinatari di una speranza, che da soli non avremmo saputo immaginare.
Infatti, se vai a vedere nel fondo della tua coscienza, puoi immaginarti la vita eterna? Non puoi, non sai farlo, anzi, hai fatto un’esperienza: probabilmente, tutte le volte che ti sei rappresentato la vita eterna, hai sentito come un sospetto, come un dubbio, crescere dentro di te e dirti “ma sarà proprio così? Ma potrebbe essere così?”
Qual è la logica, invece, con cui Dio ci viene incontro? Una logica che recuperi tutta la nostra vita e la traduca come una richiesta di significato, come una possibilità di sperimentare questa virtù della speranza.
E Gesù ci parla così: io sono il buon pastore. Non sono come il mercenario che non gliene importa delle pecore, sono uno che dà la vita per queste: parlo ed esse mi riconoscono.
Si sta riferendo a quanto accennavo all’inizio della celebrazione, nell’atto penitenziale, siamo venuti all’esistenza perché Dio ci ha chiamati e lo ha fatto con una Parola: come ha enunciato sia la luce e la luce fu [Gn 1,3], così ha proferito anche una Parola che connota profondamente, definitivamente, la nostra vita. Ora, questa Parola non è solo il nostro nome, cognome, i nostri dati anagrafici: essa dice, per esempio, tutto ciò che ci è accaduto e quello che ci accadrà, una Parola che rivela per quale motivo ci ha pensati, una Parola che spiega in quale contesto vuole salvarci, quali sono i nostri affetti, le nostre speranze, è un po’ il nostro DNA nascosto, che ci è stato dato, comandato, che noi siamo stati invitati a scoprire, a decifrare, per vivere, per abitare definitivamente e consapevolmente questa nostra vocazione.
Questa Parola nella sua completezza, non è come la sperimentiamo noi. La mia vita è fatta di tante cose, oggi la vivo come un giorno in cui desidero pregare e domani è un giorno in cui mi è faticoso farlo. Oggi penso che farò del bene e domani mi riesce difficile anche rispondere a uno solo che mi chiama al telefono. Ecco, tante realtà costituiscono la nostra vita ma, al centro di tutta questa raggiera di possibilità, c’è una vocazione, un’identità precisa, un progetto con il quale Dio mi ha chiamato all’esistenza: io non lo conosco, lo sento, lo percepisco, so che c’è dentro di me, lo vado inseguendo. Qualche volta lo cerco in modo giusto, e me ne accorgo, perché faccio esperienza anche di un risultato concreto, altre volte, in modo sbagliato e, allora, sperimento angoscia, solitudine, senso di abbandono, tutte cose che mi fanno stare male.
Dunque, avverto che c’è una possibilità che, se conoscessi, mi farebbe felice: non la proietto più sulle cose, perché mi sono accorto che queste non mi rendono pago, non la proietto più sulle persone, perché neanche queste hanno la capacità di rendermi felice, devo osservarla dentro questo DNA, in questa logica con la quale Dio mi ha chiamato.
Non sempre le cose vanno bene, lo dicevo, talvolta ci sentiamo proprio per terra…, ma si avvicina uno che descriveremmo con Isaia [Is 52,7], “come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annuncia la pace”, uno che si appressa alla nostra vita, stavolta non per giudicarci, non per accusarci, come fa il demonio che dice: hai peccato, sei un peccatore, hai fatto questo? Non lo dovevi fare: vergognati! È uno che si approssima, invece, alla nostra vita come un buon samaritano [Lc 10,30-35], come uno che ha cura di noi. E noi ci domandiamo: perché hai riguardo di me, o, come afferma Pietro: allontanati da me che sono un peccatore [Lc 5,8], perché mi ami, perché ti avvicini? Che cosa ti ha spinto? Ci aspetteremmo chissà quale risposta, Egli, invece, quando facciamo questa domanda – che, beninteso, è la perla preziosa contenuta nella preghiera autentica: la preghiera serve a questo, a domandare a questo buon pastore che ci viene incontro, perché lo fa, cosa è che lo spinge a farlo – sapete cosa ci risponderebbe? Non che è stato l’amore, è stato mio Padre, è stata una considerazione che ho fatto…, ci direbbe qualcosa che ha il potere di farci piangere, pronuncerebbe il nostro nome, ci ricorderebbe la nostra vocazione, il motivo per cui ci ha fatti, per cui ci ha chiamati, per cui ci ha creati. E noi rimarremmo allibiti, stupiti, meravigliati, farfuglieremmo: ma come? Nonostante tutto quello che ho combinato, ancora mi guardi come uno che ha la possibilità di essere quello che tu hai stabilito?
Magari, nella tua vita, sin dall’adolescenza, ti sarebbe piaciuto imparare a suonare il pianoforte, ma sei arrivato ai tuoi 35-40-50 anni e una voce dentro ti dice (suonare il piano… o quello che ti pare…): ormai è troppo tardi! Ormai non ce la farai più… Questo piano è lo strumento che può fare la musica della santità, è la tua preghiera, la tua interiorità e un demonio ti dice: ormai è tardi per imparare questo strumento, ormai lo hai scordato, ormai non sei più adatto. Invece, il buon pastore pone il tocco delle sue dita, comincia a modulare questa melodia e ti accorgi che questa è proprio quella che esprime la tua identità: è la tua musica, è la tua essenza, è tutto quello che sei, tirato fuori dalla volontà del buon pastore che ti ama.
Il buon pastore, noi lo abbiamo tradotto così, ma sarebbe il bel pastore [Gv 10,14]. Ti accorgi così che colui che ti viene incontro come uno vero, come uno autentico, come uno che ti conosce, non come ti conoscono i tuoi amici, che oggi ti amano e domani parlano male di te, ma come uno che ti conosce amandoti, uno che ti comprende anche nel peccato e non ti giudica, e tu, quando vedi avvicinarsi questo buon pastore, intuisci che è anche bello, te ne rendi conto, anzi, prima di tutto perché è bello, è una Parola credibile, che è bella, meravigliosa, dicevamo prima con Isaia, come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, come è bello vedere i piedi di uno che ci sta venendo ad alzare, a salvare, a liberarci da qualcosa, che sta venendo ad aprirci le porte della vita: sono magnifici, perché portano con sé il vero, portano con sé la bontà e la santità.
Guarda questo buon pastore, sta venendo veramente il Figlio di Dio risorto dalla morte, sta giungendo per toccare le corde di questo strumento che è la tua vocazione, perché tu possa suonare, e non, beninteso, come “assolo” nel deserto delle tue false aspirazioni, come pensi di fare qualche volta, ma nella sinfonia di una orchestra, che Egli stesso ha chiamato, questa è la Chiesa, dentro la quale sei chiamato a brillare, a mostrare il dono di grazia che Egli ha posto nel tuo cuore, proprio quel giorno in cui ha detto il tuo nome.
Sai di cosa ti accorgerai, alla fine? Questo nome con il quale ti ha chiamato è un nome santo, questa identità che ti ha dato è un’identità santa.
Rileggiamo cosa dice Giovanni in questa Lettera [1 Gv 3,1-2] che abbiamo ascoltato, alla luce di quello che abbiamo detto: Carissimi, Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati – riconosciuti, chiamati vuol dire questo, ti chiamo se ti conosco – figli di Dio, e lo siamo realmente! – ce ne accorgiamo, come dice l’evangelista, che siamo Figli – la ragione per cui il mondo non ci conosce:- non ci ama come ci ama il Padre – perché non ha conosciuto – questo buon pastore. Questo mondo non si è mai sentito chiamare per nome, per questo non ci conosce. Ci sentiamo sentiti chiamati per nome da Dio, per questo ci conosciamo -. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
Di che cosa sta parlando, del Paradiso? No. Sta riferendosi a quel giorno in cui un uomo si sente chiamare come Maria, nel giardino [Gv 20,16]: “Maria…” “Rabbuni…”. Ti ho riconosciuto, mi hai riconosciuto, mi conosci da sempre. Il giorno in cui ci sentiamo chiamati – e lo siamo, beninteso, non quando siamo sul podio della premiazione della nostra bellissima vita, ma quando ci sentiamo raggiunti, anche nello sprofondo dei nostri peccati, toccati dall’amore di Dio, che scende agli inferi nel Suo Figlio per salvarci dalle angustie – ci accorgiamo di una cosa meravigliosa, che Lui è simile a noi e noi siamo come Lui.
Questa è una grande consolazione, perché avevamo creduto, invece, che il giorno in cui Dio ci avesse chiamato, ci avrebbe trovati diversi, e anche noi lo avremmo trovato differente, non come lo avevamo immaginato e avremmo vissuto una confusione eterna, alla ricerca di un Dio incomprensibile, e incomprensibilmente amati non si sa da chi, come è la nostra esperienza della vita.
Non è così, Egli ci ha fatti come Lui e ce lo ricorda costantemente, noi lo cerchiamo perché troviamo qualcosa di Lui, qualcosa che gli appartiene e dentro questa conoscenza reciproca abbiamo imparato la logica dell’amore autentico, dell’amore oblativo, dell’amore di chi può dare la propria vita, come il buon pastore, in offerta per tutti.

Sia Lodato Gesù Cristo

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