Paul Ricoeur: “La logica di Gesù”

Qiqajon (2009), Comunità di Bose, Magnano (Bi)
11 Aprile 2016

La logica di Gesù

copPaul Ricoeur è stato un filosofo francese, cristiano riformato, pensatore tra i più profondi e sensibili del Novecento. Non si è mai definito, né lasciato definire “filosofo cristiano”, riteneva infatti distinti pensiero filosofico e cammino di fede, pur ammettendo che  arrivino ad esservi, come sottolinea Enzo Bianchi nell’introduzione a questo piccolo testo, scelto per avviare al pensiero di un autore talvolta non semplice, “alcuni luoghi di intersezione” dei due ambiti: il male, la compassione, la speranza, l’economia del dono”.

In questo libro sono raccolte alcuni contributi,  quasi tutti inediti in italiano, concernenti la fede e la religiosità: una riflessione di ermeneutica biblica sulle beatitudini, tre sermoni, una meditazione sulla liturgia, due interventi sulla presenza dei cristiani nel mondo e in rapporto alla civiltà occidentale, in’intervista di grande contenuto teologico.

Rileggendo il Vangelo delle Beatitudini, Ricoeur ci conduce ad una consapevolezza rinnovata nell’ascolto delle parole evangeliche e nel linguaggio cui Gesù dà inizio, spesso usando il paradosso. Questo è in questo autore un concetto basato sul termine greco dei Vangeli, ad esempio in Luca  5, 26 parádoxa e che è stato spesso tradotto non del tutto propriamente in italiano con prodigi, cose prodigiose. Il paradosso, invece, è quello per esempio che troviamo in Matteo 16,16 , dove leggiamo “infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?”. Predicare oggi sulle parabole di Gesù, afferma Ricoeur, è una scommessa, come lo è ascoltarle e restarne ancora meravigliati, colpiti, rinnovati e messi in movimento.

Insegnare secondo la logica di Gesù è disorientare per orientare. In alcune parabole si trovano tre elementi che mostrano questo inconsueto, per gli uomini, approccio: un evento, la conversione e la decisione. Questi tre momenti, ricercati e rinvenuti all’interno del racconto, consentono di attualizzare la parabola, astraendola dal paradosso o dall’iperbole di cui di solito si sostanzia. Dunque, si diceva, trovare qualcosa – come in Mt 13, 31-33; 13,44 e ss – oppure come nella parabola del Buon Samaritano. Ma cosa? Parliamo di qualcosa che “è applicabile a tutti i tipi di incontro che fanno della nostra vita il contrario di una serie di acquisizioni ottenute tramite l’ingegnosità o la violenza, il lavoro o l’astuzia: incontro di persone, incontro con la morte, con situazioni tragiche, con eventi felici, scoperta dell’altro, di noi stessi, del mondo, riconoscimento di quelli che non abbiamo neanche notati, di quelli che non conoscevamo così bene, e di coloro che non conosciamo affatto… la parabola designa una ben determinata relazione nei confronti del tempo, una modalità fondamentale di essere nel tempo… qualcosa accade. Prepariamoci alla novità di quello che è nuovo. Allora potremo ‘scoprire’”. Alla scoperta non fa, di nuovo paradossalmente, seguito la decisione, ma ancor prima di questa per Ricoeur si ha la conversione, che consiste in un mutamento totale di visione, dell’immaginazione, un cambiamento del cuore, precedente ogni azione, sia essa la più virtuosa. Il regno di Dio non si collega nelle parabole agli agenti che in essa si spiegano (il seme, il lievito, gli uomini), ma a ciò che si dispiega nel racconto, è nella concatenazione tra il lasciare che l’evento si produca, il mutare prospettiva e agire con tutto il cuore, la mente le forze, in accordo con questo incontro.

Nelle parabole non si dice il regno di Dio è, si dice invece è simile a, vi si privilegia l’analogia per comprendere i fatti e questi non sono vengono mai ridotti ad astrazioni. È un invito a sviluppare l’immaginazione, in questo riprendendo quelle espressioni del messaggio dell’Antico Testamento che invitavano all’analogia, alla rappresentazione visiva più che a creare concettualizzazioni. “Leggere le parabole come un insieme, un tutto armonico, consente alle menti scientifiche di uscire dal limite che si incontra nel singolo paradosso o nell’iperbole per trovare più materia nelle parabole considerate nel loro insieme che in qualsiasi altro sistema concettuale su Dio e sull’agire di Dio tra di noi”.

Paradosso e iperbole diventano un modo di “lasciare aperta l’immaginazione alle nuove possibilità dischiuse grazie alla ‘stravaganza’ di questi brevi racconti. Se guardiamo alle ‘parabole’ come a una parola che si rivolge più alla nostra immaginazione che alla nostra volontà, non saremo tentati di ridurle a consigli ‘didattici’, ad ‘allegorie’ moraleggianti. Lasceremo che la loro forza ‘poetica’ sbocci in noi…” Forza ‘poetica’ indica qui forza ‘creativa’, lasciamo dunque che “l’evento avvenga prima che possiamo convertire il nostro cuore e rafforzare la nostra volontà”.

Di questa forza creativa è espressione, per l’autore, anche la liturgia, nel suo essere memoriale, nel suo uso del simbolo essa ha bisogno di disorientare per orientare. La liturgia cristiana pur essendo memoriale, non si limita ad esso, non è solo un ‘atto sacrale’, ma un ‘segno dei tempi’. La liturgia strappa l’uomo alla sua soggettività per offrire i gesti e le parole della comunità, “facendo mio il testo liturgico, divento testo a mia volta, testo che prega e canta”.

Tale ruolo di parola viva viene promosso all’interno dell’atto liturgico attraverso la predicazione, in grado di centrare il rito che quello ripropone come memoriale, innanzitutto sull’invocazione del Nome e poi sulla vita, passione, morte e resurrezione del Figlio, sottraendo così il simbolismo della liturgia alla tentazione dell’immagine e dell’idolo. Ma l’obiettivo ecclesiale non si esaurisce nell’atto liturgico e nella parrocchia, essa è un raduno “in vista di un invio… non può essere un battere in ritirata, un luogo di rifugio, ma una ripresa, un rinnovato radicamento nell’essenziale, in vista di un impegno più libero e generoso nel mondo”. Ricoeur parla di una generazione al mondo, a tutti gli uomini, fatta dai cristiani, insieme alla Chiesa.

Dopo una didattica del disorientare per ri-orientare, del quale potremmo dire che le parabole in qualche misura ne sono la didascalia, il passaggio successivo è la comprensione della logica di Gesù, come opposta alla logica degli uomini. Il diritto degli uomini si pregia di commisurare con crescente esattezza la punizione al crimine, la logica degli uomini è, in soldoni, una logica di equivalenza. In questo si contrappone a quella di Gesù che è invece una misura di sopravanzo, di eccedenza. In Genesi, Dio aveva mostrato agli uomini un sistema diverso da una corrispondenza perfetta tra delitto e pena, ma è in Gesù che questa nuova logica si esprime in maniera più evidente, come avviene in Matteo 5, 38-42. Per quattro volte di seguito il Figlio di Dio dà un comandamento estremo che lascia sconcertati: ancora un paradosso, usato, afferma Ricoeur, nell’intento di “rovesciare la nostra tendenza naturale”, suggerire uno ‘stile’ in conflitto con tutto ciò che muove il nostro agire. Attraverso, come d’abitudine, l’immaginazione sviluppata dal paradosso e dall’iperbole, è dato all’uomo di aprirsi a nuove possibilità, di “scoprire una via ‘altra’ grazie al fatto che vediamo le cose diversamente, il potere di accedere a una nuova regola accogliendo l’insegnamento dell’eccezione”. La logica di generosità, insita nelle promesse di JHWH, nelle parole di Gesù diventa evidente e ridondante, così come la logica di sovrabbondanza sovverte quella dell’equivalenza, che viene esplicitata in tutta la sua forza nella Lettera i Romani, dove Gesù non è solo Colui che annuncia la buona notizia come nei Vangeli, è colui “che tramite la follia della croce, spezza la triste equivalenza tra peccato e morte”.

Come si accennava, questo testo contiene un’intervista rilasciata da Ricoeur a Bertrand Révillon di grande portata teologica. In essa troviamo esplicitata la figura del servo sofferente come espressione fondamentale del simbolismo cristiano, in  cui la semplificazione assoluta dell’amore di Dio espressa nella donazione del Figlio è  “immediatamente accessibile, comprensibile per ogni uomo. Entrare nella dinamica del credere significa decidere di fare di questo servo, di Gesù Cristo, colui che organizza la nostra vita, la comprensione di noi stessi e dei rapporti con gli altri”.

Il servo sofferente è una figura che mette in crisi, anzi distrugge, dice Ricoeur il concetto dell’onnipotenza di Dio, come di colui che è in grado di ottenere ciò che vuole. Già nell’Antico Testamento Dio deve scontrarsi costantemente con le resistenze dell’uomo, ma è soprattutto nel cristianesimo che facciamo esperienza di una Parola che lungi dall’essere onnipotente spesso si rivela, se spogliata dai privilegi del potere, San Paolo stesso, quando parla dell’abbassamento di Cristo, mostra come l’Onnipotente rinuncia all’onnipotenza.

“Il passaggio dalla figura di un Dio onnipotente a quella del servo sofferente è a caro prezzo per parte della teologia. Ma un prezzo molto caro si paga in ogni caso a riflettere sull’uomo e su Dio dopo Auschwitz, dopo che il nostro secolo ha dimostrato che il male assoluto è una realtà effettiva. E questo vale in particolare per il cristianesimo, dove l’idea dell’onnipotenza di Dio è stata per molto tempo centrale. Rinunciarvi significa andare verso l’abbandono completo dell’idea di provvidenza che, peraltro, non mi sembra sia di origine biblica. Si può pensare alla persistenza di un progetto di Dio, certo, ma l’idea di una sorta di protezione divina individualizzata – ‘io sono al sicuro perché sono un buon cristiano’ – non è giusta nei confronti di tutte le vittime. In quest’ambito, nessuno mi ha fatto promesse, non è detto che non morirò tra dolori atroci. La mia fede mi invita solo a sperare in caso di prova nell’aiuto di Dio per avere il coraggio di esistere, malgrado tutto”.

La fede nel Dio onnipotente va riformulata, sostiene Ricoeur, nella fede di un Dio di amore, da onnipotente a “onni-amante”.

 

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