Introduzione al Giudaismo
Perché parlare in un libro, in un piccolo manuale, del giudaismo? Un motivo potrebbe essere che ancora troppo spesso noi cristiani nutriamo ancora un atteggiamento di diffidenza strisciante (talvolta neanche troppo) verso tutto quello che viene da un mondo cui dovremmo invece riconoscerci parte integrante: sappiamo pochissimo dell’ebraismo e del giudaismo, che come viene spiegato nel testo, sono termini non sempre coincidenti, e ci gloriamo talvolta di una forma di analfabetismo crasso che nega o riduce la portata di tutta la rivelazione dell’Antico Testamento e dell’itinerario degli uomini che hanno camminato con Dio, guidati da Dio, fino all’incarnazione del Verbo e con i quali l’Eterno si è compiaciuto di stabilire un’Alleanza già in Abramo. È un popolo che continua a camminare, ancora oggi, alla ricerca di Dio e dal quale non possiamo prescindere per vivere la fede in Cristo come perfezionamento di quella legge che Gesù non era venuto ad abolire, ma a portare a compimento.
Questa “Introduzione al giudaismo” di Paolo De Benedetti è un testo particolarmente interessante in questa direzione per una serie di motivi. In primo luogo, per la profondità della ricerca di questo autore, volto da sempre a cercare nella Scrittura i significati, i sensi ulteriori capaci di istaurare una comunicazione, un dialogo, una modalità di comprensione, se così si può dire, tra l’uomo e Dio. In secondo luogo, perché essendo “partecipe” di entrambe le fedi, giudaismo e cattolicesimo[1], può essere un solido ponte sul quale attraversare le acque intorbidite delle rivendicazioni bilaterali e permettere invece di trovare un solido approdo comune nella Fede nel Dio unico e nella possibilità di conoscerlo scrutando la Scrittura. In terzo luogo, perché ha, rispetto ad altri testi, anche interessanti, sullo stesso tema, un approccio semplice, chiaro, divulgativo al punto da farne un riferimento ideale per coloro che vogliano iniziare a capire alcuni aspetti del giudaismo e approfondire la modalità di trasmissione della fede tipica degli ebrei.
È lo stesso autore che ci introduce efficacemente sin dalla Premessa nel percorso che intende proporci per conoscere questo mondo.
“Un antico maestro della Misnhà, Ben Bag Bag, diceva: ‘Volgila e rivolgila, tutto vi è in essa [nella Torà]’ (Avot 5,22). Tutto è nella Torà, ma bisogna voltarla e rivoltarla: Dio ha parlato, ma l’uomo deve metterci il commento. Intorno a questi due pilastri dell’ebraismo si ‘aggirano’ le pagine che seguono: si aggirano perché non hanno una meta, un punto di arrivo, ma vogliono solo essere momenti di una frequentazione infinita (una ruminatio, direbbero i Padri) della Torà scritta e orale, fatta di ritorni e riprese. […]. uesto libro potrebbe definirsi come un continuo interpretare il senso di quel versetto di Es 24,7 in cui è racchiusa, se così si può dire, l’essenza del giudaismo: ‘Tutto ciò che il Signore ha detto, lo eseguiremo e lo ascolteremo”. […]
“Il giudaismo è plurale, e questa pluralità – nelle idee, nei tempi, nei luoghi, nelle identità – è la sua forza. Perciò molte sono le porte per entrarvi e viverci, o anche solo per conoscerlo. Una porta è quella che anche il Nuovo Testamento indica nel farsi carne, cioè realtà variamente terrena e sensibile, della parola (per Israele la Torà, per i cristiani Gesù). Fuori di questa concreta ‘vocalità’ divina – se così si può dire -, di Dio non sapremmo mai nulla, se non, appunto, chiamarlo “Ain” (Nulla), o “Mi?” (Chi), secondo i maestri della qabbalà. Ma Ain è divenuto Ani, ‘Io’, e perciò abbiamo un Tu e non siamo più soli”.
Potremmo anche fermarci solo qui e credo che molte delle nostre precomprensioni andrebbero rimesse in discussione… ma possiamo andare oltre.
De Benedetti, sottolineando che la religione biblica non è l’ebraismo di oggi, attraverso un breve percorso sugli eventi storici mostra come sia meglio parlare di giudaismo, a partire dal periodo che va dal 538 AC ad oggi e questo termine sta ad indicare quel “mondo spirituale, la religione di quei giudei, ossia di quegli abitanti del regno di Giuda deportati e poi tornati, che durante l’esilio avevano profondamente meditato sulla propria fede e sulla propria storia, avevano ripensato le tradizioni e le avevano redatte per iscritto, e di conseguenza avevano trasferito l’epicentro della loro vita religiosa dal sistema che vigeva nel Tempio di Gerusalemme a un altro: culto della Parola di Dio, liturgia della Parola, studio della Parola”.
Tutto questo avviene con lettura, ascolto, apprendimento e discussione. Gli ebrei ritengono di aver ricevuto sul Sinai la Torah scritta, i cinque libri del Pentateuco, e la Torà orale, la tradizione che si tramanda con il giudaismo rabbinico. La Torah orale è la trasmissione di generazione in generazione, di padre in figlio, di maestro in discepolo fino a oggi (e continuerà nel tempo a venire) di un insegnamento che ha la sua fonte esclusiva, completa e totale nella rivelazione del Sinai. Per l’ebraismo i profeti, i libri sapienziali, il resto della Bibbia, sono una esplicitazione della Parola di Dio pronunciata sul Sinai.
“Che cosa ha detto Dio sul Sinai? Innanzitutto ha presentato se stesso; non si è però descritto come nei vecchi catechismi (‘Dio è l’essere perfettissimo, Creatore e Signore del cielo e della terra’). ma ha dichiarato: ‘lo sono il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto?’(Es 20, 2). Ha fatto cioè una teologia storica, non metafisica o cosmogonica. A essa segue il Decalogo, ossia una serie di comandi e divieti. In altri termini, potremmo dire che Dio si rivela come volontà, una volontà che ordina all’uomo di ‘fare’, e per questo l’ebraismo si definisce come ortoprassi, prima che come ortodossia. Israele è chiamato all’ascolto di una voce che comanda: ‘Ascolta, Israele’, Shema’ Jisra’el (Dt 6, 4)”.
L’ebraismo, e ancora di più il giudaismo, pongono l’accento su un sistema di azioni da fare non perché consentono un auto trascendimento dell’uomo, non perché hanno un contenuto sublime (solo alcune lo hanno, rivela l’autore), ma perché provengono da Dio e il loro rispettarle e compierle diventa atto di ubbidienza. “II sistema dei precetti in ebraico si chiama appunto Halakhà che vuol dire ‘via’. La via da percorrere ‘per essere come Dio realizzare l’immagine”.
Tre sono dunque gli elementi connotanti questa ‘religione’ lo studio, la storia, il fare e si alimenta costantemente attraverso una categoria che rimanda alla nozione di Zikkaron (memoriale).
II memoriale è rendere presente, oggi, la storia della salvezza. Questo ha la stessa identica validità sia nell’ebraismo che nel cristianesimo. Il memoriale fa sì che io possa, nel momento in cui ci partecipo, entrare in contatto con Dio: è così per la partecipazione all’Eucarestia, è così, ad esempio nel Seder di Pesach per gli ebrei.
Lo studio si attua, si vivifica e si tiene vivo attraverso la discussione: i maestri di tutte le generazioni, si confrontano, discutono le loro interpretazioni, quando la maggioranza dei maestri accetta un commento quello non appartiene più a chi l’ha proposto, ma diventa “rivelazione del Sinai”, entrando così nel patrimonio della Torah orale soggetto a trasmissione. Questo significa che la discussione nel giudaismo porta ad un fare e in questo fare ci deve essere unità. L’uomo riceve i precetti da Dio, li osserva in ubbidienza, su essi studia e discute, ma poi tutto ritorna a Dio come possibilità data all’uomo di avvicinarsi sempre di più all’Eterno.
Tra le righe e le pagine di questo libro possiamo scoprire molti aspetti del giudaismo che potremmo dire, forse, propedeutici per vivere il cristianesimo, soprattutto quella vivificazione della Parola che il Concilio Vaticano II ha riportato in primo piano e il cui radicamento è ancora così lontano dalla nostra religiosità. Scoprire l’importanza della ricezione e della trasmissione della Fede, il dono della Scrittura, la pluralità dei sensi interpretativi, il ruolo fondamentale della Torah orale, dello studio – affaticamento – sulla Parola, lo spirito dei precetti, probabilmente uno degli aspetti più incompresi del giudaismo, e nello stesso tempo comprendere tutto questo come “ascolto” e messa in pratica di quanto Dio ha comandato, effettuati nell’obbedienza e non nel loro esaurimento in se stessi, credo sia quanto potremmo augurarci come risposta a un tempo e un mondo in cui tutto si consuma nel possesso di qualcosa (e qualcuno).
A coloro che ancora si chiedono perché leggere un libro come questo rispondo perché insegna qualcosa: ecco un notissimo episodio riferito a Hillel il Vecchio, un grande maestro ebreo che era ancora vivo quando nacque Gesù. “Un giorno andò da lui un pagano, che prima era stato da un suo collega e rivale, Shammaj, e gli aveva detto: ‘lo mi faccio ebreo, se tu mi spieghi l’ebraismo mentre io sto su un piede solo’. Shammaj, che era noto per la sua severità, si irritò, e lo percosse con una canna da misurare che aveva in mano. Il pagano, però, senza disarmare, si recò da Hillel, che invece era noto per la sua grande dolcezza. Alla stessa richiesta, Hillel rispose: ‘Quello che a te è odioso, non farlo al tuo compagno: questa è tutta la Torà [cioè rivelazione]. Il resto è commento: Va’ e studia!’.