Paolo De Benedetti: “Quale Dio?

Una domanda sulla storia - Morcelliana Brescia (2004)
14 Febbraio 2016

Quale Dio?

Quale Dio?Dopo Auschwitz “la domanda sul male ha assunto molte voci, secondo il credere o il non credere degli interroganti: c’è chi come Elie Wiesel, si è chiesto dove era Dio, e chi, come Primo Levi, dov’era l’uomo, se la spiegazione è forse in quel volto divino dal quale la morte ci separa, non per questo Dio ci ha liberati dalla domanda: anzi vien quasi da pensare che quell’alito insufflato nel primo uomo altro non sia che lo spirito di domanda”.

Quale Dio”, sottende ad altre domande, pressanti, che ogni individuo, anche l’ateo per poter essere tale, non può non porsi. La prima di queste è dov’è Dio, cui seguono perché fa ciò che fa, perché permette il male? Inevitabilmente domande che non possono non restare apparentemente aperte, senza risposta, ma anche in queste, afferma l’autore, “c’è un progresso rispetto alle certezze precedenti”, al momento in cui non ci si pone alcun interrogativo.

Un processo che porta a chiedersi quale è l’immagine di Dio che abbiamo e quale è il nostro pensare di Dio, che in queste pagine si esplicita, come evidenzia l’autore nella premessa in “un incerto tentativo di cercare Dio dietro gli angoli della Bibbia e della tradizione ebraica, di giungere infine ad uno scambio di compassione non letteraria tra lui e noi”.

Di fronte alla domanda “quale Dio” nell’ebraismo si riscontrano due tipi di risposte: il riv o lo zinzum. Il primo indica la contesa con Dio, quella che vediamo nella Torah sin dalla disputa in favore di Sodoma di Abramo (Gn 18,23-24), in Giobbe (Gb 31,35) e in Geremia (20,7-9). Il riv “non offre una risposta, è una risposta, nel senso che fonda la fede in Dio non su una soluzione, ma sull’accettazione dei ‘doppi pensieri’, sia come atteggiamento dell’uomo, sia come immagine di Dio”, sostanzialmente un Dio dialettico che cammina con l’uomo, discute con l’uomo, si relaziona con le sue domande.

Al riv si oppone in qualche maniera lo zinzum che sta per ‘contrazione’, un ritrarsi di Dio nel suo essere “inteso in termini di esilio, di bando della sua totale Onnipotenza nella sua profonda solitudine”.

Al nascondimento dell’uomo dopo il peccato (Adamo dove sei?) si affianca il ritrarsi di Dio che nasconde il Suo volto (hester panim). Un atto talvolta spiegato come giustizia punitiva dell’Onnipotente, altrove come quasi una manifestazione “chenotica”, in cui emerge una richiesta di aiuto da parte della divinità “che ha bisogno dell’uomo per guarire la propria lacerazione, redimere ed essere redenta” e che si esprime mirabilmente in un canto liturgico ebraico con “me e lui [cioè Dio] salva, deh”.

Di solito, di fronte alle domande, sostiene De Benedetti, si dice che Dio non risponde per salvare la libertà dell’uomo. “Il rispondere di Dio sarebbe stato, per esempio, far morire Hitler, salvare quei bambini, ecc? la libertà dell’uomo vale la morte di quei bambini?”. Oppure, se così si può dire, forse Dio non risponde perché non è ancora pronto? Dove quel forse non sta per forse Dio c’è, forse non c’è, ma sta a significare “forse ho capito perché tace, forse non l’ho capito, forse fa bene a tacere, forse fa male. Insomma è un ‘forse’ mio e un ‘forse’ Suo”.

Partendo dalla inevitabilità del male nella vita dell’uomo e soprattutto dalla sua inoppugnabilità dopo Auschwitz, l’autore si interroga facendo riferimento alle Scritture, alla tradizione rabbinica e agli studi di alcuni autori, su quale sia l’immagine che ci siamo fatti di Dio, soprattutto dopo la Shoà, concludendo le sue riflessioni con una sollecitazione estremamente dirompente, per tutti ed in particolare per coloro, anche devoti, che invece le domande non sono abituati a porsele e che rispondono agli interrogativi (degli altri credenti, ma soprattutto dei non credenti) con un linguaggio banalmente scontato, persino quasi empio, con frasi ad effetto, precostituite, lontane dalla Sapienza di Dio e dal Suo disegno non ancora rivelato totalmente agli uomini. A costoro De Benedetti si rivolge con “dove abita il dolore di Dio”, è l’ultimo capitolo di queste mirabili pagine, dedicato a Jad wa-Shem, il luogo del ricordo della Shoà a Gerusalemme, letteralmente “la mano e il nome”, dove accanto ad archivi, biblioteca, documentazione riguardante quei terribili anni, si passa per il viale dei Giusti, ai cui lati una fila di alberi, ognuno ricorda “il nome” di un non-ebreo morto per salvare gli ebrei, nell’Aula del Ricordo in cui una fiamma incessante brucia davanti ai “nomi” dei campi di sterminio e si arriva quindi nella Galleria dei Bambini, un tunnel che si percorre nel buio più totale, nel quale in alto brillano piccole luci e una voce ripete “i nomi”, l’età e la provenienza di un milione e mezzo di bambini morti nella Shoà. Ascoltare la voce che ripete questi nomi è per l’autore “nello stesso tempo il segno della nostra totale impotenza di fronte al male, e l’atto più religioso che possiamo compiere. Impotenza, perché la Shoà, di questo bambini, ci ha lasciato soltanto (e non sempre) il nome. Ma il nome, e più che mai a Jad wa-Shem, significa vittoria contro il nulla, una piccola vittoria, un seme di ricordo, che ci permette di affermare davanti all’ombra di Hitler: ‘questo bambino è esistito’”.

Una lettura ebraica di Isaia 40,1 afferma “Consolatemi, consolatemi mio popolo”, ma come poterlo fare di fronte a tale realtà? E De Benedetti continua dicendo: “in questo luogo il ricordo assume un ulteriore significato, significa fare l’esperienza (direi sacramentale, perché Jad wa-Sh,em è un percorso che i cristiani devono considerare sacramentale) di una morte che non ha avuto resurrezione il terzo giorno, e che è venuta da mani battezzate. La teshuvà (conversione) cristiana non passa soltanto attraverso le parole di confessione o attraverso i pensieri di una teologia convertita. Passa attraverso questo ottavo sacramento che è Jad wa-Shem: sacramento nel duplice senso che ci fa sperimentare la Shoà e ci introduce alla corte di Dio. Ma non immaginiamoci di trovare, al di là di quella soglia, il Dio della nostra infanzia. Anch’egli ha consumato le parole, e tace: e tuttavia là è il suo trono, là è il Santo dei Santi. L’ingresso dei gentili nell’alleanza, oggi è Jad wa-Shem, o non è”.

“Quale Dio” facciamo riferimento? A un Dio che chiede, come narra un Midrash alle Lamentazioni, di poter piangere sulla rovina del suo popolo, un Dio che non è buono per definizione e assente nel dolore, oppure a un Dio punitivo forse più che misericordioso?

Jad wa-Shem è il “luogo più santo della città dove Dio ha scelto di ‘far abitare il suo nome (Dt12,11)’, perché è il luogo dove abita il dolore di Dio”, questa lapidaria conclusione di Paolo De Benedetti apre al credente, al lettore, a chi ha imparato a chiedersi e a domandare sulla realtà di Dio, una via nuova di vivere la fede, il passaggio illuminante dal parlare di Dio al dialogare insieme a Dio.

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