“La porta di Giobbe” un itinerario nella Scrittura alla scoperta dei libri sapienziali (PARTE 1)
Durante la quaresima di quest’anno abbiamo scelto di offrire, suddiviso in diverse uscite, un testo di Francesco Carbone che ci offre una lettura guidata del libro di Giobbe. Proviamo con esso a uscire dalla lettura usuale del personaggio di Giobbe, uomo dalla “proverbiale” pazienza nell’immaginario profano, e scoprire un modo diverso di approcciare la Parola, libero dalle precomprensioni e aperto alla riflessione sapienziale, dimensione di ricerca che, come molti amici hanno appreso, la Scuola di Preghiera da sempre predilige. Vi auguriamo una buona lettura, a seguire la prima parte del testo.
LA PORTA DI GIOBBE: VARCARE LA SOGLIA DEI LIBRI SAPIENZIALI (PARTE 1)
UNA QUESTIONE DI PUNTI DI VISTA
Quando si parla del libro di Giobbe, i primi elementi che sovvengono alla nostra mente riguardano le dimensioni della sofferenza e della giustizia. Indubbiamente sono questi i temi affrontati in modo impellente e ricorrente lungo gran parte della vicenda; eppure, non sono gli unici e, oseremmo dire, paradossalmente nemmeno quelli chiave per accedere al cuore del racconto.
Infatti, una lettura occasionale di questo libro biblico facilmente ci induce solamente a serbare nella memoria il ricordo di un personaggio che sperimenta sulla sua pelle la controversa problematica relativa al rapporto tra colpa e peccato e, eventualmente, la misteriosa presenza del male nel mondo. Ma se la nostra esperienza è quella di una lettura parziale, è ancor più probabile che questo personaggio biblico evochi unicamente l’immagine lontana e sbiadita di una persona che soffre e si lamenta finché Dio risponde. Se invece ci trovassimo nella situazione di non aver mai aperto le pagine di questo libro biblico, ad ogni modo il ‘sentito dire’ ci informerebbe di alcuni elementi a riguardo e, come ci si aspetterebbe, sarebbero comunque pochi e forse imprecisi.
Normalmente, in ognuno dei precedenti casi, ciò che si sa è che Giobbe non solo patisce, ma subisce dei mali essendo innocente. Comunemente, i contorni che assume questo personaggio nella nostra mente sono quelli che lo delineano come una persona fondamentalmente paziente (la proverbiale ‘pazienza di Giobbe’) e probabilmente virtuosa proprio a causa di questo atteggiamento. E chissà, per ciò stesso e per chi così voglia leggerlo, Giobbe diviene simbolo anche di una persona pia, devota, dimessa e sottomessa che rimane salda nei momenti avversi (elementi che poi possono essere visti o come religiosamente positivi o piuttosto del tutto da biasimare).
A nostro avviso, l’esito di una lettura unicamente di questo tipo (o non lettura) potrebbe facilmente annidare il rischio di restringere il campo di visuale che invece il testo biblico tenta di mantenere quanto più ampio possibile. In primo luogo, una conseguenza possibile di tale restringimento di visuale, è quella di giungere a considerare il libro di Giobbe, alla fin fine, come un’opera che si trovi a cavallo tra una narrazione dal sapore moralistico, una quasi biografia e una lettura vagamente edificante. Non solo. Conseguentemente, questo – diremmo – collocamento di genere letterario facilmente destina a far diventare Giobbe un personaggio piatto, un uomo che assumiamo essere compiuto e completo nella sua caratterizzazione: solamente una persona corretta nei confronti della norma, giusta da un punto di vista morale e che subisce delle tragedie che potrebbero, e anzi frequentemente lo sono, essere lette come prove che servono a saggiare questa compiutezza. Un Giobbe dunque quasi monolitico, un uomo che parrebbe non aver bisogno di null’altro nella sua esistenza se non di dare definitivamente testimonianza e ragione di tale sua giustizia e innocenza attraverso delle prove che a questa sua magnitudine siano pari nella loro gravità.
In realtà, ad una lettura più attenta del testo, bisogna ammettere che il racconto stesso nel suo svolgersi presenta discorsi e dialoghi che invece gettano una luce – diremmo – strana su Giobbe, i quali mettono in discussione questa pretesa compiutezza della personalità del protagonista. La vicenda e la connotazione di Giobbe si presentano infatti con tratti più dinamici e vibranti di quello che ci si potrebbe aspettare. Ad esempio, è possibile cogliere in alcuni passaggi l’idea che è in fondo impossibile trovare in un uomo un grado di giustizia così compiuto da non poter aver causato un qualche tipo di trasgressione che è quindi causa di questa sua sofferenza. E solo a partire da questa considerazione che il testo ci offre, già ci troviamo a dover assumere una qualche posizione a riguardo: chi è Giobbe? E questa domanda almeno inizia a dare un po’ di rotondità al personaggio (e anche al lettore stesso che, interrogandosi, entra in un rapporto più profondo col testo – che dovrebbe poi essere quello appropriato (cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione dogmatica Dei Verbum (18 novembre 1965), nn. 21.25).
Dunque, su Giobbe ci si potrebbe chiedere: Giobbe è esclusivamente quello che viene tratteggiato all’inizio del testo? È veramente un uomo senza colpe? E se lo è, perché Dio lo fa soffrire? E, poi, da lettori interpellati dalla Scrittura, ci potremmo domandare: e noi chi saremmo in rapporto a Giobbe e alla sofferenza? Oltre a conoscere la vicenda di questo personaggio, c’è anche un insegnamento per noi? È forse un libro che parla a noi, o in maniera più ardita, che parla anche di noi?
Ora, potremmo rispondere che Giobbe è puro e innocente. E se Giobbe è puro ed innocente, noi però, che invece riconosciamo di non esserlo, non potremmo mai metterci in relazione con lui (e – diciamolo – così il testo facilmente perderebbe di senso e gusto ai nostri occhi).
Ma potremmo anche seguire la scia del ragionamento che insiste nell’affermare che nessun uomo è giusto davanti a Dio (forse nemmeno Giobbe), e che la trasgressione può portare a una appropriata, se non condanna, almeno correzione, dovendo accettare da Dio tutto, resistendo e dando così prova della solidità della nostra fede. Ma allora Giobbe non è vero che è integro. Oppure lo è e, nonostante ciò, gli capitano delle sventure. In aggiunta, sembrerebbe anche che non sia possibile nemmeno indagare ulteriormente sulla ragione di tali mali giacché il volere di Dio è imperscrutabile – e su questo molti di noi sarebbero concordi – ma ciò creerebbe l’imbarazzo di ammettere che, anche se cristiani che hanno ricevuto lo Spirito di Dio, alla fine non sapremmo come leggere la volontà stessa di Dio. Ma Giobbe non è cristiano, diremmo allora. Dunque, ancora una volta, perché questo libro ci dovrebbe interessare se non parla a noi cristiani?
Potremmo allora pensare, sì, che Giobbe sia integro e puro, ma puntando l’attenzione sulla sua sofferenza, leggendo nelle sue sventure delle prove che servono per testare la sua fede (e questo sembrerebbe avere un sapore un po’ più vicino ad una certa sensibilità cristiana). Però, ci sarebbe ancora un problema: Giobbe è giusto e irreprensibile, e se non lo è, almeno comunque rimane «il più grande fra tutti i figli d’oriente» (Gb 1,3). Queste sono connotazioni magniloquenti, degne di un tale elevato personaggio, e forse, almeno per questo, a lui è possibile sia sopportare il male sia rimanere saldo nella fede. Ma è altrettanto possibile a noi che non siamo né giusti ed innocenti né tra i più grandi figli d’oriente? Dal testo dedurremmo probabilmente un paradigma o un esempio di quello che saremmo chiamati a fare nelle avversità (resistere e rimanere saldi), imitando Giobbe. Ma questo prototipo che viene offerto comunque parte avvantaggiato rispetto a noi. E che modello sarebbe, allora? Potremmo anche chiudere il libro (ancora una volta). Parla di cose gravi, ma non di noi. Giobbe patisce come noi, ma noi non siamo quell’uomo dei primi versetti del capitolo 1.
Ma siamo sicuri che Giobbe sia un personaggio così piatto? Ad una analisi più attenta delle sezioni in cui è Giobbe stesso a intervenire, è in realtà difficile ritrovare in tali righe i lineamenti di quella persona che sapevamo essere l’uomo mite e paziente per eccellenza (non nel senso che soffra solamente, ma che anche sopporti ‘eroicamente’ e forse stoicamente quello che di male gli accade). Infatti, ci sono delle esternazioni di Giobbe che sorprendono a riguardo, che non lo collocano e non lo descrivono più in un quadro di mitezza e di pazienza; ma, anzi, lo fanno trasparire come un uomo confuso, a tratti orgoglioso, ma soprattutto un uomo stufo: seccato di sentire i giudizi altrui e stanco di non capire quello che sta succedendo. Non solo, addirittura, pur non confessandolo in maniera troppo esplicita, egli fa capire che giacché qualcosa di sbagliato sta accadendo nella sua vita, e l’errore non è commesso da lui poiché è giusto, l’errore dovrà essere stato per forza commesso da qualcun altro (che intuiamo essere Dio). Se da una parte è sicuramente interessante ed importante rapportarsi con Dio anche spronandolo, cercandolo con veemenza, per poter ottenere una risposta, tuttavia il modo in cui Giobbe parla a e di Dio, soprattutto verso la fine del libro, non lo fa apparire più come quell’uomo che ci si aspetterebbe: se è una persona paziente, se è una persona mite, se è una persona dalla fede incrollabile, dimessa, sottomessa, pia e devota dovrebbe poter avere più punti saldi ai quali appoggiarsi piuttosto che avere vuoto e buio intorno; dovrebbe sapere – seppur nel pianto o nello stordimento – quali chiavi di lettura e criteri usare per leggere quello che gli sta accadendo. Invece Giobbe è totalmente disorientato (come lo saremmo probabilmente noi).
Se è questa la condizione nella quale egli si strugge, quella del disorientamento, allora ci si aspetterebbe almeno che il protagonista ricorra agli strumenti che possano aiutarlo a leggere la sua situazione; e se non li ha, almeno che li vada a cercare o che quantomeno qualcuno che lo veda glieli possa offrire. Invece quello che accade tra Giobbe e gli amici che lo visitano è fondamentalmente una attività volta alla ricerca della falla nel sistema, della colpa o del colpevole che ha causato tutto questo squilibrio nella sua vita e così lamentarsene.
In sintesi, la priorità non apparirebbe essere quella di possedere una sapienza che illumini quella circostanza di buio esistenziale. E se non è quella di avere un criterio sapienziale la priorità dei personaggi, allora ci si potrebbe chiedere: perché, sin dalla tradizione ebraica, il libro di Giobbe è considerato invece un libro dal carattere sapienziale? Non è una lamentazione e non è nemmeno un libro storico, non è una biografia né una cronaca e nemmeno un libro che ha a che fare con temi mitologici (e sicuramente non è un’opera moralistica o edificante). Invece, ci viene detto che è un libro sapienziale, che quindi tratta e ha come soggetto la Sapienza e non altro. E perché? Perché è forse intriso di un certo tipo di moralismo: si parla del bene, si parla del male, si parla del peccato e quindi infine si parlerebbe di morale (morale= sapienza)? O si annovera tra i libri sapienziali poiché vi è spesso un riferimento alla Sapienza (e infatti al capitolo 28 leggiamo un elogio di questa virtù)? Solo per questo, dunque? Solo perché appare questo nome, perché vi è questo ampio riferimento? Oppure si trova nei libri sapienziali perché nel testo si dice che la Sapienza di Dio è qualcosa di alto rispetto a noi e dunque rispetto al male che può venire nella nostra vita è inutile che stiamo troppo a ragionarci? Dunque, un libro sapienziale che ci direbbe in sostanza che la Sapienza non è a nostro appannaggio: i fatti capitano nella nostra vita, e molti sono paradossali, ma chi può sapere come leggerli?
A questo punto, forse, prima ancora che della pazienza di Giobbe, varrebbe la pena di parlare della sapienza di Giobbe. Giobbe è il protagonista di un libro sapienziale – e il canone cristiano lo pone addirittura come primo libro di questa serie- dunque, prima ancora che del rapporto tra Giobbe e la giustizia/sofferenza, bisognerebbe indagare il rapporto tra Giobbe e la Sapienza. Giobbe è sapiente? Sta scritto «Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore» (Sal 89,12). Dalla lettura del testo, Giobbe si mostra in numerose circostanze come una persona sballottata, una persona confusa, una persona che sa come si è comportata e ha conoscenza di ciò che un certo tipo di comportamento dovrebbe produrre, ma ciò non accade e Giobbe è costretto ad accusare qualcuno, magari chi, secondo quanto egli sapeva, aveva messo in piedi questa logica (Dio) per poi in qualche modo contraddirla. Questa sapienza che ha Giobbe sa contare i suoi giorni? Giobbe ha la capacità di scrutare quello che gli sta accadendo? Giobbe non sa quello che sta accadendo; e se non sa, che sapienza ha? Di che libro sapienziale parliamo?
Questo libro biblico è posto, nel canone cristiano, come primo libro della raccolta dei testi sapienziali. Allora, Giobbe ci appare forse come una porta di accesso a questa dimensione (quella sapienziale); e se il suo esito fosse quello di comprendere che fondamentalmente non possiamo comprendere, possiamo ben capire che questa soglia non si potrebbe mai varcare.
Dunque, il problema di Giobbe, lo vediamo, è la colpa. La colpa è il primo problema di Giobbe, la colpa è il primo problema degli amici di Giobbe, la colpa è anche la questione sulla quale l’Accusatore, in maniera subliminale, cerca di far posare l’attenzione (non solo dei personaggi nella storia, ma anche del lettore), ma egli sa che la colpa è solo un buono strumento e alibi per creare confusione e fare il proprio gioco. Sorprendentemente, invece, alla fine del testo, con l’intervento divino, vediamo che la colpa non è invece il problema che si pone Dio e, si potrebbe dire, non è nemmeno il tema fondante sul quale l’autore sacro, per ispirazione divina, decide di comporre questa narrazione.
Per comprendere meglio, forse è necessario ripartire dall’inizio.
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Ottima idea. Grazie