La Porta di Giobbe

Varcare la soglia dei libri sapienziali
19 Marzo 2022

“La porta di Giobbe: varcare la soglia dei libri sapienziali” (PARTE 2)

Durante la quaresima di quest’anno abbiamo scelto di offrire, suddiviso in diverse uscite, un testo di Francesco Carbone che ci offre una lettura guidata del libro di Giobbe. Proviamo con esso a uscire dalla lettura usuale del personaggio di Giobbe, uomo dalla “proverbiale” pazienza nell’immaginario profano, e scoprire un modo diverso di approcciare la Parola, libero dalle precomprensioni e aperto alla riflessione sapienziale, dimensione di ricerca che, come molti amici hanno appreso, la Scuola di Preghiera da sempre predilige. Vi auguriamo una buona lettura, a seguire la seconda parte del testo.

LA PORTA DI GIOBBE: VARCARE LA SOGLIA DEI LIBRI SAPIENZIALI (PARTE 2)

UNA VOCE CHE GRIDA DALL’ANTICHITÀ

L’uomo che grida a Dio dalla sofferenza per impetrare salvezza e che, in connessione a ciò, esamina la sua condotta per rivendicare la propria giustezza o eventualmente chiedere perdono per le trasgressioni non è una immagine letteraria squisitamente ebraica. È un dramma universale, un dramma che appartiene a tutte le culture e a tutti gli uomini. Lo schema fondante di questo tema apparirebbe essere: io, come persona che agisce nel mondo e nella società, seguo certi dettami che mi rendono parte della società, che danno equilibrio ai miei rapporti in maniera orizzontale (prossimo) e verticale (Dio-valori); e se qualcosa si scombina, deve essere un disequilibrio causato da una qualche trasgressione. Perciò, in questo tipo di visione si collegano quindi anche le dimensioni di colpa/punizione e sofferenza.
Il popolo ebraico vive in un contesto geografico e culturale non isolato. Il Vicino Oriente Antico e il bacino del Mediterraneo costituiscono un’ampia macroregione composta di popoli e culture che vivono in uno stato vivace di compenetrazione culturale, sociale ed economica. Il popolo ebraico, dunque, ha a sua disposizione anche nella maniera di narrare la sua storia e di produrre il suo pensiero un ineludibile bacino di immagini e strumenti comune che è quello proprio anche degli altri popoli semitici, e non, circonvicini.
Questa determinata area geografica ha sviluppato fin da tempi pre-biblici, e prima quindi di Israele, esattamente questo tema che abbiamo visto essere universale nell’essere umano: il giusto che soffre e che cerca Dio, tema che quindi non è una invenzione della Bibbia. Il racconto di Giobbe, almeno nella sua parte iniziale e nella sua parte finale, quella scritta in prosa, ricalca una struttura già nota in precedenza; e anche la parte in mezzo, quella scritta in poesia, contiene espressioni, concetti, dialoghi già contenuti ed elaborati da culture e letterature precedenti (stavolta nella Bibbia, però, con svariati punti di novità).
Ovviamente, vi è una peculiarità nel racconto di Giobbe che non lo rende uguale a nessun altro racconto, soprattutto perché questa particolare condizione e problematicità dell’uomo è vissuta, letta e trasfigurata sulla base dell’esperienza che il popolo di Israele stesso ha con Dio. Questo è l’elemento che rende Giobbe un racconto unico e prettamente ebraico, e dopodiché anche cristiano, nella sua specificità e nella sua divina ispirazione. Tuttavia, come sappiamo, la Scrittura è parola di Dio in parole di uomini: e se quello che noi inquadriamo come parola di Dio è il senso ultimo, l’intenzione e l’orientamento che un determinato scritto possiede; quello che definiamo parole di uomini è invece l’insieme di contenuti, immagini e strutture che hanno, per forza di cose, una loro connotazione precisa storica e geografica e non necessariamente originale (cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione dogmatica Dei Verbum (18 novembre 1965), nn. 11-13). Il libro di Giobbe è, quindi, su tale questione, un’analisi che parte utilizzando il materiale umano trattato in chiave letteraria già, nel periodo della sua elaborazione, da tempo presente in quell’area. E questo materiale umano presente al tempo dell’elaborazione del libro biblico, senza orma di dubbio, può costituirsi come, in un certo qual modo, le ‘fonti’ del Libro di Giobbe stesso. Non solo, vale la pena sottolineare che anche questo materiale letterario preesistente, nella cornice culturale e sociale alla quale appartiene (quella accadica principalmente), è inquadrato in un contesto di letteratura sapienziale.
Adesso, siamo sicuri di sapere che cosa significa nella cornice del Vicino Oriente Antico e del Mediterraneo dire “sapienza” o “opera sapienziale”? Se a questa domanda non siamo in grado di dare una risposta precisa, probabilmente del libro di Giobbe rischiamo di perdere la parte migliore. Dunque, se in virtù di tutto quanto esposto, questo libro di Giobbe è stato considerato di carattere sapienziale nella tradizione ebraica e così accettato nel canone cristiano, ci dobbiamo chiedere innanzitutto: qual è la Sapienza di Giobbe? Ma forse ancora prima ci dovremmo chiedere: cos’è la Sapienza?

LE ‘FONTI’ DI GIOBBE

Dialogo tra un uomo e il suo dio

(Per l’elaborazione di questa parte, si è fatto riferimento ai titoli, alle classificazioni, alle traduzioni e ai commenti dei testi antichi offerti dagli esiti degli studi di Rositani A. riportati al capitolo 3 del manuale antologico a cura di Ercolani A. e Xella P. (Ercolani, A. – Xella, P. (2013): La Sapienza nel Vicino Oriente e nel Mediterraneo antichi. Antologia di testi. Urbino: Carocci editore).

Ci troviamo nella prima metà del secondo millennio a.C. Un uomo appartenente alla società babilonese intraprende un dialogo con il suo dio per cercare di comprendere le cause che hanno prodotto la sua condizione di sofferenza.
Il testo ci dice che lo interpella come se fosse un amico, e costantemente supplica una sua risposta, un suo intervento. La sua condizione fisica è pessima, la sua vita, il suo corpo sono per lui come un fardello e aleggiano su di lui sentimenti di tristezza e infelicità. Non gli è nemmeno possibile rimanere in posizione eretta per comunicare con il suo dio: la debolezza lo ha così sfiancato che non può che trovarsi a terra con il volto nella polvere.
Nonostante tutto, la sua bocca produce clamore per rivendicare la gravità delle sue sofferenze in un lamento costante. Poi, il primo dialogo in forma diretta che abbiamo è quello che contiene una scorante dichiarazione: non so cosa ho fatto di sbagliato. Quest’uomo ci dice che ha fatto una lunga disamina nel suo cuore ripercorrendo il suo agire e non capisce che cosa è successo di così offensivo che abbia attirato l’ira divina.
Il testo, purtroppo, non ci è pervenuto in maniera completa; sappiamo solo che alla fine dell’opera questo dio, mosso a compassione, ordina che sia restaurato il buono stato di salute di questo suo devoto, sancendo così la fine della sua infelicità e chiedendo che egli non dimentichi quest’azione di grazia, di ricordare sempre che egli è il suo dio, il suo creatore, e che provvederà di lì in poi affinché quest’uomo abbia vita lunga.
Non solo, in maniera molto singolare questo dio chiede anche che quest’uomo agisca nei confronti del prossimo come egli stesso ha agito nei suoi: cioè che senza alcun tipo di timore egli soccorra i disidratati, dia cibo agli affamati e acqua agli assetati. Infine, conclude sancendo che ‘il portale’ della vita e della felicità oramai è aperto in qualsiasi momento della vita di quest’uomo: che egli sia dentro, che sia fuori, che esca o che entri, egli sarà felice.

Poema del giusto sofferente

Ci troviamo sempre nello stesso contesto culturale e sociale, quello babilonese, ma questa volta verso la fine del secondo millennio a.C. Un uomo intraprende un lungo monologo nel quale descrive la sua condizione di caduta rispetto a una situazione previa di ricchezza e di rilevanza all’interno della sua comunità. Egli è un uomo nobile che cade in disgrazia e si ammala per volontà del dio Marduk.
In questo scritto i temi fondamentali si aggirano intorno alla questione della fede, del dubbio e della sofferenza. All’inizio del testo, quest’uomo parla del Dio Marduk costruendo un elogio della sua potenza e del suo modo di agire, caratterizzato tanto da atti di misericordia e dolcezza quanto di forza e punizione. Marduk è inoltre un dio in grado di scrutare i pensieri non solo degli uomini, ma anche degli altri dèi; e tuttavia, nessuno è in grado di comprendere i suoi.
In seguito a questa considerazione, l’uomo di questo scritto comunica di essere stato, a un certo punto della sua vita, colpito dal dio. Descrive che, se la sua condizione precedente era caratterizzata da vigore fisico e prosperità economica e sociale – ad esempio quando egli camminava per strada, veniva riconosciuto; e quando entrava a Palazzo, le persone gli strizzavano l’occhio in segno di intesa – invece adesso, nell’indigenza e nell’inferma salute, gli è nemico addirittura chi prima era fratello. La sua vita è in pericolo e la sua famiglia lo considera un estraneo. Non solo, quest’uomo lamenta anche il fatto che i suoi stessi nemici, persone inique, hanno invece una vita felice e rigogliosa.
La sua bocca si apre solo per impetrare misericordia, ma la sua preghiera, disordinata e febbricitante, non viene ascoltata; il suo cuore tremante che desidera che Marduk mostri il suo volto non trova soddisfazione; e nemmeno gli indovini sono in grado di scrutare fino a quando tutto ciò terminerà.
L’uomo continua a enumerare tutto ciò che di bene faceva prima della sua caduta – infatti istruiva gli altri all’osservanza dei riti e a stimare gli dèi – ma adesso è confuso perché, se da Marduk ha ricevuto questa condizione ignobile nonostante quella condotta retta, c’è da chiedersi che cosa allora possa far piacere ad un dio. Forse egli ha compiuto del male senza accorgersene pensando che fosse bene: d’altronde, giunge a dire, è impossibile fino in fondo indovinare le intenzioni degli dèi.
Le condizioni fisiche che l’uomo descrive sono poeticamente riportate nel componimento con vigore e forza espressiva tale da suscitare compassione nell’animo di chi legge. Addirittura, nello scorrere di questo poemetto, sembra che il protagonista giunga fino ad uno stato di coma: la sua alta statura è abbattuta, la faccia è a terra, un demone è entrato dentro di lui, si è vestito del suo corpo – un corpo in sfacelo -, il sonno lo soffoca come una rete e i suoi occhi non riescono più a vedere. In seguito a questo stato di veglia a cavallo tra una vita terrena di dolori che si sta spegnendo e un inizio di accesso alla dimensione dell’oltretomba, egli fa dei sogni, delle visioni in cui gli vengono incontro delle figure in suo soccorso, lo purificano, lo massaggiano, e intercedono per lui anche con l’aiuto di un esorcista.
Il giusto, capiamo dal testo, può guarire solo se il dio accetta le sue preghiere; e Marduk, leggiamo, le ascolta finalmente, spazzando via questa iniquità, di cui tuttavia il protagonista non capisce la causa, come fosse vento. Forse solo la fiducia nella misericordia di Marduk ha potuto accendere una piccola luce di speranza e di ottimismo.
Così, l’uomo, una volta guarito e ristabilito nella sua posizione di prestigio, espone alla sua comunità la grandezza di Marduk, la potenza del suo intervento ed afferma che solo egli è in grado di riportare in vita chi stava nella tomba.

Salvazione di un sofferente
Anche con questo componimento ci troviamo nella prima metà del secondo millennio a.C. in contesto babilonese. Un personaggio qui parla delle sofferenze che l’avevano afflitto a livello dei rapporti sociali e del corpo, facendolo giungere fino alle soglie della morte.
Anch’egli, si narra, con un repentino intervento del dio Marduk che ha avuto compassione di lui, dopo essere stato affondato, viene riportato a galla; dopo essere stato atterrato, viene risollevato, i suoi occhi velati vengono aperti e viene tirato su dall’oltretomba.

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Consigliamo la lettura di:
– Costituzione Dogmatica Dei Verbum (specialmente capitolo III) anche accessibile tramite link Dei Verbum
– Libro di Giobbe, cap 13,16,17,24,29,30

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