La Porta di Giobbe

Varcare la soglia dei libri sapienziali
06 Maggio 2022

“La porta di Giobbe: varcare la soglia dei libri sapienziali” (PARTE 6)

Durante la quaresima di quest’anno abbiamo scelto di offrire, suddiviso in diverse uscite, un testo di Francesco Carbone che ci offre una lettura guidata del libro di Giobbe. Proviamo con esso a uscire dalla lettura usuale del personaggio di Giobbe, uomo dalla “proverbiale” pazienza nell’immaginario profano, e scoprire un modo diverso di approcciare la Parola, libero dalle precomprensioni e aperto alla riflessione sapienziale, dimensione di ricerca che, come molti amici hanno appreso, la Scuola di Preghiera da sempre predilige. Vi auguriamo una buona lettura, a seguire la seconda parte del testo.

LA PORTA DI GIOBBE: VARCARE LA SOGLIA DEI LIBRI SAPIENZIALI (PARTE 6)

La parola è agli uomini

Secondo round di “disgrazie”. A questo punto la moglie di Giobbe è assolutamente arrivata allo stremo delle forze e della sopportazione circa questa situazione. Nel rivolgersi al marito, sembra quasi sottolineare di lui un atteggiamento di inutile testardaggine e di accanimento su questa posizione di integrità oramai insopportabile. Le sue parole al marito quasi potrebbero appartenere a un discordo più ampio nel quale lei dice: “perché vuoi mantenere questo punto di integrità? Sfogati, io so quello che pensi: dillo, maledici Dio e muori”. Giobbe invece persiste e dice che se da Dio accettiamo il bene dobbiamo anche accettare il male.

A questo punto, il lettore giustamente si potrebbe chiedere: “Perché?” Il bene che Dio può dare è, in definitiva, sullo stesso piano del male che Dio darebbe così che sarebbe comunque accettabile? E poi Dio dà il male? E, comunque, tutti i beni e l’abbondanza che la grazia di Dio dà e che Giobbe dice che noi accettiamo possono poi trovarsi sullo stesso piano dell’assenza di questa grazia o dell’opposto di questa grazia? Cioè, possiamo dire che la vita è uguale alla morte: o uno o l’altro a noi non fa differenza, basta che sia Dio a darlo e noi come compito abbiamo quello di accettarlo? Dov’è il senso dell’esistenza, allora? Giobbe è altrettanto contento, soddisfatto, realizzato tanto se vive in quella situazione iniziale (da paradiso terrestre) come in questa (di limite)? Che senso ha questa frase di Giobbe? Che sapienza racchiude? Una sapienza che lo convince? No. Giobbe lo afferma, ma, come vedremo appena dopo, in fondo, non lo crede.

Infatti, arriva il momento in cui Giobbe si stanca anche di mantenere il punto di dover esercitare questo suo essere irreprensibile. “Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno” (Gb 3,1). Ora nulla va bene. Non è come all’inizio: ora tutto è paradossale e senza senso. E arriva subito il momento in cui Giobbe esplode. E quali sono le sue prime parole? Sono quelle che maledicono il giorno in cui è nato. Giobbe preferisce non essere mai esistito. Giobbe desidera la distruzione del suo stesso esistere. Giobbe odia esistere. Dunque, quando ha affermato che se da Dio accettiamo il bene allora dobbiamo anche accettare il male, questa è stata solo un’affermazione priva di senso, priva di condivisione interiore, un qualcosa che odora di moralistico e di edificante, ma non racchiude nessun tipo di sapere convincente. Sembra proprio che Giobbe non riesca a contare i suoi giorni, che non abbia un criterio di Sapienza.

E che cosa accade nei capitoli successivi? Come si comporta Giobbe? Di cosa si premura? Ebbene, il problema che si pone Giobbe non è quello di avere criteri e strumenti per discernere cosa gli stia accadendo, piuttosto il suo problema risiede nel contestare un, potremmo dire, crimine di lesa maestà. Di ciò non è colpevole Dio – vuole sempre metter in chiaro Giobbe – eppure Lo cita in giudizio. Cosa c’è veramente nel cuore dell’uomo? Alla Corte celeste stanno assistendo a questo dramma: ma almeno ora si sta iniziando a “giocare a carte scoperte”.

E il lettore ora intuisce che la questione che Dio pone all’inizio, dovuta a un qualcosa che bisognava affrontare, forse aveva motivo di essere posta. Questo Dio-re è sorprendente nella sua lungimiranza.

Ora, vista l’universalità del problema di Giobbe, è possibile dunque chiedersi cosa vi sia all’interno del cuore dell’uomo. E questa non è una considerazione moralistica; e non è nemmeno un tentativo di cercare di trovare in Giobbe un qualche tipo di colpa o di mancanza colposa per imputare la giustezza di una punizione o di una conseguenza negativa. Affatto.

Quello che è possibile notare nei capitoli successivi è, generalmente, che ampi tratti del discorso di Giobbe e delle sue risposte agli amici che lo vanno a trovare, incluso anche il contenuto di quello che gli amici stessi dicono a Giobbe, tutto è pienamente rivolto alla propria condotta, all’agire dell’io e, conseguentemente, ciò che Dio dovrebbe o non dovrebbe fare in merito alla condotta dell’uomo. Leggiamo, dunque, nei ragionamenti degli amici, così come nei più antichi componimenti babilonesi, che Dio dovrebbe essere giusto (ricompensando o punendo) – e in alcune opinioni espresse Dio viene descritto con questo atteggiamento – per cui Giobbe deve essere colpevole di qualcosa se sta soffrendo. In altri luoghi del racconto, invece, Giobbe è visto obiettivamente per quello che è, cioè irreprensibile, e quindi c’è qualcosa che non va: si cerca allora di dare la colpa a qualcos’altro, o qualcun altro come Dio, anche se non lo si fa così esplicitamente; si trovano altre vie che però non soddisfano.

Vero è anche un altro elemento (accanto all’analisi del proprio io): e cioè che dalle parole di Giobbe traspare amarezza non solo per quanto riguarda la sua situazione – quello che egli dice che Dio gli stia facendo – ma soprattutto per quanto riguarda i suoi stessi amici, i quali gli sono di ostacolo, gli amici gli sono nemici, lo stanno fiaccando accusandolo e atterrandolo (ostacolo, inimicizia, accusa e odio sono, ricordiamolo, quei significati alla base della parola Satan). Poi, altrove, vediamo anche che Giobbe, verso la fine del suo discorso, produce questo che potremmo chiamare ‘documento’, ‘testamento’ di giustizia nel quale egli afferma e sottoscrive per quali ragioni lui è giusto, per quali ragioni lui è irreprensibile; quindi, rispedendo il paradosso della sua situazione così com’è al mittente (Dio). Il Salmo 36 ci ricorda che la ricerca della colpa è una indagine rischiosa per il mantenimento di una condotta pia. E Giobbe in questi capitoli lo vediamo, inaspettatamente, percorrere un sentiero ambiguo: indubbiamente è trattato da accusato/colpevole, ma d’altra parte anch’egli è alla ricerca di un colpevole da accusare (anche se fosse egli stesso).

Abbiamo un Giobbe confuso, un Giobbe che detesta questi tre amici (a torto o a ragione), e che, allo stesso tempo, si sente di potersi ergere al di sopra dei ragionamenti degli amici (lui stesso ci dice che ai bei tempi stillava consigli, alle sue parole nessuno replicava ed era il consolatore degli afflitti, ma adesso non riesce a consolare sé stesso, allora ci si chiede: attraverso quale sapienza lo faceva?) e altrettanto gli amici sentono di potersi ergere sopra le evidenti ragioni di Giobbe. Chissà magari ognuno in cuor suo ringraziando Dio di non essere come l’altro, che per le proprie sofferenze deve essere stato colpevole di qualche peccato, deve essere stato un ladro, un ingiusto, un adultero. E qui Giobbe inizia ad assumere dei connotati particolari. Gli amici, che non si trovano nella situazione di Giobbe e che si sentono sotto l’effetto di un favore divino, deducono di essere giusti e irreprensibili giacché categoricamente e pedissequamente rispettosi delle norme morali e di altri tipi di precetti. E partendo da questa situazione di grazia, guardano al prossimo sofferente e che fanno? Lo etichettano, lo giudicano e probabilmente, tirando un sospiro di sollievo, (in cuor loro) ringraziano Dio di non essere peccatori come lui (come, nel passo evangelico, il fariseo che guarda il pubblicano pregare).

Giobbe non viene soccorso, viene schiacciato e lasciato nel caos. Per questo Giobbe non riesce più a credere alle parole del proprio prossimo. Ed è qui che Giobbe quasi si configura, prima ancora che simbolo di ogni uomo sofferente, come simbolo dell’’altro’ per eccellenza. Giobbe è uno straniero rispetto alla Terra Promessa, è “quello” della terra di Uz. E pur non essendo direttamente legato alle promesse e alla legge di Dio, non essendo come noi, ma qualcuno che è altro, è una persona buona, senza malvagità, sincera, retta e religiosa. Nel momento della disgrazia, di una momentanea incapacità di discernere, di avere parole di sapienza per leggere quello che gli accade, necessita di qualcuno che lo recuperi, che gli ricordi il volto di Colui che lo ha chiamato all’esistenza. Come sta scritto in Siracide 42 “tutte le cose sono a coppia, una di fronte all’altra, l’una conferma i meriti dell’altra”. Ma qui, nell’acme della disperazione di Giobbe, nessuno è di aiuto a nessuno, né gli amici tra di loro, né tantomeno Giobbe a sé stesso.

Tutto questo è quello che si sta svolgendo in questi capitoli. Cosa potremmo dire all’altro che ci interpella circa la sua sofferenza? Circa il suo ritenere che il favore di Dio è andato via e senza apparente motivo? Giobbe prima di rappresentare noi stessi nella nostra condizione di fragilità è l’altro che cerca sul nostro volto quello di Dio; e simultaneamente mentre sperimenta a pieno la sua creaturalità ecco che il suo volto da quello dell’altro diviene il nostro, la sua carne sofferente è anche la nostra. Egli è noi e il nostro prossimo quasi allo stesso tempo. E questo perché nessuno, per nessun motivo, può ergersi al di sopra o al di sotto dell’altro, ma ognuno a fianco dell’altro, fronte a fronte alla ricerca e in contemplazione l’uno nell’altro di Colui che in egual misura dona a tutto Sé Stesso a tutti.

Inoltre, circa la questione inerente alla Sapienza, vale la pena ricordare anche che queste sono le stesse parole che dirà Giobbe: che comunque e in ogni caso, sia che egli si trovasse in prosperità sia che egli si trovasse in disgrazia, Dio non lo vedeva. Lo ha detto lui alla fine, “eri per me un sentito dire”. Dio, in fondo, non era esperienza nella vita di Giobbe. Ma questo non costituisce una colpa per Giobbe, non stiamo cercando di trovare l’errore in Giobbe che motivi la sua sofferenza o lo renda più vittima o più sospettoso. Stiamo semplicemente analizzando cosa Giobbe ci sta raccontando chi Dio fosse nella sua vita: colui che gliel’aveva data e colui che allo stesso modo gliela stava togliendo, nelle parole di Giobbe, che riconosce che lo aveva rivestito di pelle e di nervi, ma che ora glieli stava togliendo. Il problema, adesso, non è più trovare una colpa, il problema è di conoscere Dio veramente e avere quella Sapienza che è eterna e che permane, non quella conoscenza che non basta, che, quando si esce dai sentieri più o meno rassicuranti di un certo sentito dire, causa che tutto torni nel caos.

Giobbe forse è stato istruito nel sentito dire e chissà che forse l’innocenza di Giobbe deriva dal fatto che nessuno abbia saputo orientarlo in maniera adeguata nel suo rapporto con Dio. Tuttavia, la sua rettitudine e il suo essere buono e sincero lo fanno essere trasparente e lo forzano ad essere autentico nel momento di necessità e finalmente Giobbe può vedere in un lungo percorso fatto di parole cosa c’è nel suo cuore e cosa desidera che ci sia. E cosa desidera? Desidera che ci sia giustizia, giustamente, come nelle parole che leggiamo nel libro di Malachia «dov’è il Dio della giustizia?». È per Giobbe necessario, allora, che avvenga questo incontro, che Lo incontri e che Lo veda, che di Lui abbia una esperienza autentica. Bisogna, dunque, rimettersi in cammino. E la Corte celeste a tutto questo dramma sta assistendo.

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