La Porta di Giobbe

Varcare la soglia dei libri sapienziali
13 Aprile 2022

“La porta di Giobbe: varcare la soglia dei libri sapienziali” (PARTE 5)

Durante la quaresima di quest’anno abbiamo scelto di offrire, suddiviso in diverse uscite, un testo di Francesco Carbone che ci offre una lettura guidata del libro di Giobbe. Proviamo con esso a uscire dalla lettura usuale del personaggio di Giobbe, uomo dalla “proverbiale” pazienza nell’immaginario profano, e scoprire un modo diverso di approcciare la Parola, libero dalle precomprensioni e aperto alla riflessione sapienziale, dimensione di ricerca che, come molti amici hanno appreso, la Scuola di Preghiera da sempre predilige. Vi auguriamo una buona lettura, a seguire la seconda parte del testo.

LA PORTA DI GIOBBE: VARCARE LA SOGLIA DEI LIBRI SAPIENZIALI (PARTE 5)

Tutto ha inizio con una domanda

Potrebbe finire qui, ma l’autore fa parlare Dio-re che chiede all’accusatore se abbia posto attenzione su Giobbe il suo servo. E di questo Giobbe, Dio-re ne fa una descrizione esaltante: è integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male, esattamente quello che ci viene detto all’inizio del racconto. Cosa ci vuole far capire l’autore con questa domanda? Cosa ci vuole dire? Perché Dio interpella l’accusatore? E perché Dio parrebbe quasi forzare questo ministro a porre l’attenzione su Giobbe? Forse per zittirlo? Forse per fargli vedere che finalmente c’è qualcuno di cui non si può biasimare nulla? Potrebbe essere un’idea.

Tuttavia, un’altra possibilità, giacché in Dio-re non può esistere ingenuità o malizia, appare essere quella che l’autore in realtà vuole comunicarci che sia necessario indagare su un qualche aspetto che merita la nostra attenzione. Ed il fatto che tale aspetto non sia così facile da cogliere nell’immediato da parte del lettore ci ricorda che, per quanto possiamo sforzarci di andare ad indagare questi pensieri di Dio, dobbiamo accettare che non è sempre possibile comprendere tutto subito, poiché Dio, comunque, è Dio e noi siamo uomini. E fin dall’inizio è importante ricordarsi di questa cosa: non tanto, cioè, della imperscrutabilità del pensiero di Dio, quanto dell’importanza di posizionarsi ognuno al proprio posto: Dio è Dio e l’uomo è l’uomo. E vale anche la pena ricordare che questa difficoltà di posizionarsi al proprio posto è esattamente all’inizio di ogni peccato, vedasi Adamo ed Eva. Allora, questo rispettare il “proprio posto” (o limite) significa che Dio non ama l’uomo? Che l’uomo non è degno di Dio e deve tenersi a distanza da Lui? O che l’uomo non è degno di partecipare delle cose di Dio? No. Questo non possiamo dirlo. Ma per giungere a questa profondità di relazione, dobbiamo renderci conto che essere uomini è la nostra dimensione, è la dimensione che Dio ha scelto per noi e che agli occhi di Dio e nel progetto di Dio ciò non è uno svantaggio, come piuttosto a noi uomini solitamente appare.

Ma, senza precorrere gli avvenimenti, ritornando alla scenetta di prima, notiamo che l’autore crea questo dialogo che effettivamente getta un’ombra circa il motivo per cui Dio pone queste domande al suo ministro. Chissà che forse questo chiedere di Dio al suo ministro, quindi questo consigliarsi con uno dei consiglieri, indichi che in fondo a Dio-re qualcosa non torni. Dio, che conosce la sua creatura e ha la possibilità di guardarla direttamente in volto e nel suo cuore, pare che decida di intervenire per dirimere una certa problematica prima ancora che il lettore stesso riesca ad accorgersi che vi possa essere qualcosa che non quadra. Pensiamoci bene: una volta che sappiamo che Giobbe è onesto, retto e timorato, che fa gli olocausti, che è ben voluto, ha successo sociale e, per quanto immaginiamo, è in salute, non c’è nulla da dire: tutto è limpido, tutto è chiaro. Allora, cosa c’è da chiedere? Tutto è alquanto evidente agli occhi di tutti. Ma far posare lo sguardo su qualcosa, come fa Dio con il suo ministro, significa invece che c’è qualcosa in più che deve essere comunicato. Nessuno, infatti, parla per parlare, c’è sempre un’intenzione dietro ad ogni enunciato, nessuno direbbe qualcosa di ovvio se non fosse necessario per introdurre dell’altro. E se tutti sappiamo come è Giobbe, ovviamente Dio compreso, che senso avrebbe parlarne?

Non solo. Se guardiamo attentamente, all’inizio del racconto, ci viene offerto un quadretto idilliaco in cui tutti sono contenti, le cose vanno bene, ciascuno fa quello che deve fare senza nessun tipo di problema, senza nessun tipo di questione da risolvere. Regna una inusuale pace e armonia. La problematicità, invece, è tipica della nostra umanità: infatti, se, come lettori, da un lato riusciamo a riconoscerci, in diversi gradi e in diversi modi, nelle lamentele e nelle sofferenze del Giobbe dei capitoli successivi al primo; molto probabilmente troveremo difficoltà a riconoscerci con la parte iniziale del racconto, anche perché probabilmente pochi di noi stanno vivendo in questo momento come vive Giobbe all’inizio del racconto. Probabilmente, leggendo questo inizio del racconto, nella nostra mente si producono delle immagini da sogno, da favola, luminose, verdi, gioiose che si ritraducono in noi in un desiderio di poter vivere quella realtà, e questo indica che forse ora non ci troviamo in essa; e probabilmente iniziamo pure a pensare che per vivere quella realtà, dovremmo fare proprio come Giobbe: se solo riuscissimo ad essere giusti come lo è lui, forse, avremmo tutta questa benedizione!

E poi Dio, quasi lasciandoci intendere che ci sia una questione da risolvere – se non ci fosse nessuna questione non si capirebbe il senso di una domanda, domanda e questione sono anche sinonimi, e se una domanda/questione viene posta, allora significa che c’è qualcosa da affrontare – interroga il suo ministro. E il tenore della questione possiamo intuire è di grande rilevanza e molto delicata. Perché? Perché Dio non parla con un ministro a caso, ma con quello scrupoloso: e chi meglio di uno scrupoloso ministro della sua corte potrebbe andare a fondo di una questione stringente senza remore e giri di parole?

Dio pone la questione al suo ministro, dunque, quasi prendendolo in disparte, e descrive Giobbe così come il racconto all’inizio lo dipinge: irreprensibile, retto, timorato. Chiede se forse abbia trovato del marcio in lui. E questo pubblico ministero ammette di non aver trovato nulla da ridire nei confronti di Giobbe, però insinua che probabilmente sia tutto una facciata. “Che Giobbe tema Dio per nulla?” gli dice. Che, cioè, questo suo modo di vivere in questo paesaggio così ideale e desiderabile, fatto di abbondanza e relazioni pacifiche, possa non essere compreso adeguatamente e correttamente dall’uomo che lo riceve?

Il ministro della corte di Dio-re tocca qui una dimensione enormemente rilevante con la sua domanda che introduce la questione del “timore di Dio”. E la categoria del timore di Dio è una delle più elevate del panorama biblico, e nella cultura e nella fede ebraica è anche la più originale definizione di Sapienza che abbiamo nel Vicino Oriente Antico, e, questa volta, è tutta elaborazione di Israele (cfr. Paladino L.C., “La sapienza nei testi biblici”, in Ercolani A – Xella P., 2013). Per quale motivo, allora, l’uomo deve temere Dio? Cosa significa che il principio della Sapienza è il timore di Dio?

Allora, quello a cui assistiamo già fin dall’inizio della vicenda di Giobbe nella sfera divina è assai interessante. L’autore, seppure in forma implicita, infatti espone subito la questione riguardante la Sapienza, soggetto della raccolta di libri cui appartiene Giobbe. E l’indagine riguardo la persona di Giobbe si focalizza così fin da subito non su di un piano di colpa/trasgressione, ma su di una dimensione ancor più intima e fondante nella coscienza dell’uomo: con quali occhi, cioè, la creatura guarda le cose? Dio offre e si offre all’uomo, e l’uomo con quale spirito si relaziona con Dio e la sua offerta? A cosa deve Giobbe questo timore di Dio? Giobbe teme Dio in merito all’abbondanza che lui ha? Giobbe teme Dio in merito alla paura di non poter mantenere questa abbondanza che lui ha? Cosa significa per Giobbe temere Dio? In che rapporto è, in definitiva, Giobbe con la Sapienza di Dio? Teme Giobbe per, come dice l’accusatore, nulla? In ebraico quella parola significa ‘gratuitamente’, ‘senza spesa’, ma significa anche ‘invano’, ‘senza ragione’, ‘senza motivo’, ‘inutilmente’, ‘perché sì’ (cfr. Schökel, L.A., 2013). Il libro di Giobbe è un libro sapienziale, e Israele ci dice che il principio della Sapienza è il timore di Dio. E la prima questione che viene affrontata in seno alla corte celeste è proprio che cosa abbia capito l’uomo del timore di Dio, e perché esso sia relazionato alla Sapienza. A noi lettori questa dimensione può sfuggire al principio, ma Dio, che vede e scruta meglio di noi i nostri cuori, ancor prima che noi ce ne possiamo accorgere, già sa dove andare a dirigere il suo sguardo per istruire la sua creatura. Da qui inizia il dramma. Dio-re è impaziente di scoprirlo. Manda subito il suo servo a verificare.

È necessario, però, già da qui evidenziare anche che, prima ancora che ci venga detto o ci venga offerto il modo di capire che cosa significa temere Dio, negli interventi di questo ministro è possibile leggervi come egli, nella sua puntigliosità e anche nei suoi connotati più negativi e malevoli, in maniera subliminale, cerchi di combinare una sorta di relazione, un rapporto tra salute e ricchezza come unico ed esclusivo modo che Dio ha di mostrare la sua grazia nei confronti della creatura. Dice infatti: “Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai come ti maledirà apertamente” (Gb 1,11). La benevolenza divina, dunque, pare essere intimamente legata solo a un successo fisico, materiale e sociale. Ma noi possiamo ben comprendere che la fedeltà e la benevolenza di Dio, proprio perché provengono da Dio insieme alla sua Sapienza, sono realtà indefettibili, durature e fedeli e non possono essere associate indissolubilmente e unicamente a degli elementi che, proprio perché appartengono a una materia caduca, oggi ci sono e domani molto probabilmente no. Su questa dimensione, l’accusatore cerca di far pendere l’ago della bilancia e, chissà, forse per un moto di invidia o gelosia o rivalsa tenta di creare questa confusione. Giobbe, di fronte alle prime disgrazie, comunque non smette di essere fedele a Dio.

Tutto ciò non appare essere abbastanza, e Dio-re nella sua corte celeste ancora vuole andare a fondo della questione, vuole che esca fuori dal cuore di Giobbe quello che Giobbe veramente ha nel cuore. Soprattutto desidera che Giobbe possa compiere appieno questo suo cammino, egli che già lo ha iniziato a percorrere, da fuori, da non appartenente al popolo, in quanto retto. E Dio, come dice il salmo, «veglia sul cammino dei giusti» (Sal 1,6). Dio non vuole, lo si capirà in seguito, che le altezze della Sapienza rimangano solamente delle cime irraggiungibili. Dio ha ben altri piani, e molto più ambiziosi, per la sua creatura, la quale è stata fatta capace di Lui, la quale, come secondo la sensibilità ebraica, è chiamata a compiere il comandamento di realizzare l’immagine divina data nella creazione attraverso una via che si configura in un percorso sapienziale che l’uomo è chiamato – ma deve soprattutto desiderarlo – a compiere.

Nel secondo capitolo del libro di Giobbe, l’autore fa dire a Dio-re addirittura di essere stato spinto un po’ troppo oltre nel permettere queste sofferenze. Ma l’accusatore insiste che questa creatura forse non è in grado di accogliere quello che Dio vuole offrirgli. E Dio vuole indagare questo aspetto, così come ci viene raccontato dall’autore in questa scenetta, e permette altri mali nella vita di Giobbe, tutto tranne che la perdita della vita, che in questo caso dovrebbe essere letto come lasciare a Giobbe il tempo di percorrere la via della giustizia per giungere alla Sapienza del cuore.

Dunque, tornando alla scenetta raccontata nel capitolo due, Dio-re riconsulta il suo ministro, e analizza che Giobbe è in fondo il Giobbe di sempre, è il brav’uomo che non ha fatto nulla: non uccide, non ruba, non fa nulla di male, è lontano dal male, e probabilmente gli si sta togliendo questa grazia di doni per nulla, senza una vera ragione. Il ministro, invece, che è molto puntiglioso, ricorda che il primo vero dono che viene fatto all’uomo è la sua vita: la prima grande grazia è quella di esserci, di avere avuto qualcuno che da sempre lo ha desiderato, che gli ha dato un corpo, lo ha rivestito e gli ha anche cucito una tunica. E quel dono, lo sa benedire? Dice il ministro: “Ma stendi un poco la mano e colpiscilo nelle ossa e nella carne e vedrai come ti maledirà apertamente” (Gb 2,5). Qual è il rapporto che l’uomo ha con questo dono? È solo dono quando le cose vanno bene? O rimane dono in qualunque caso? Qual è il dono vero della vita? Il viverla bene? O c’è altro per cui la vita assume un senso e che sempre risplende e trasfigura ogni cosa seppur nelle alterne vicende che sperimentiamo? Qual è la sapienza di Giobbe riguardo il senso di questo dono? Dio anche vuole saperlo.

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