La Porta di Giobbe

Varcare la soglia dei libri sapienziali
26 Marzo 2022

“La porta di Giobbe: varcare la soglia dei libri sapienziali” (PARTE 3)

Durante la quaresima di quest’anno abbiamo scelto di offrire, suddiviso in diverse uscite, un testo di Francesco Carbone che ci offre una lettura guidata del libro di Giobbe. Proviamo con esso a uscire dalla lettura usuale del personaggio di Giobbe, uomo dalla “proverbiale” pazienza nell’immaginario profano, e scoprire un modo diverso di approcciare la Parola, libero dalle precomprensioni e aperto alla riflessione sapienziale, dimensione di ricerca che, come molti amici hanno appreso, la Scuola di Preghiera da sempre predilige. Vi auguriamo una buona lettura, a seguire la seconda parte del testo.

LA PORTA DI GIOBBE: VARCARE LA SOGLIA DEI LIBRI SAPIENZIALI (PARTE 3)

PERCHÉ LETTERATURA SAPIENZIALE?
(Per l’elaborazione del capitolo si è debitori dei contributi, degli esiti, delle considerazioni e delle classificazioni degli importanti studi di Ercolani A., Xella P., Rositani A. e Paladino L.C. (in Ercolani A. – Xella P., 2013))

I testi che sono stati citati in precedenza fanno parte del più esteso corpus della letteratura in lingua accadica. I vari scritti sono solitamente raggruppati in diversi filoni quali quello celebrativo, narrativo, efficace, espressivo e didattico/sapienziale. Quest’ultima categoria è quella che racchiude i componimenti prima trattati (cfr. Rositani A., “La sapienza nelle culture mesopotamiche”, in Ercolani A – Xella P., 2013).

Per quale motivo tali scritti riguardanti il tema del giusto sofferente sono interpretati come a buon diritto facenti parte del gruppo didattico/sapienziale e non, ad esempio, narrativo, espressivo o – per aggiungerne uno a nostra immaginazione vista l’elevata presenza di lamentela e pianto – di lamentazione/elegiaco?

Quali sono, invece, gli elementi che rendono questi contenuti dei contenuti eminentemente sapienziali? Perché la società del Vicino Oriente Antico, prima, e gli studi moderni, poi, – che hanno reinterpretato e categorizzato questo corpus letterario – vedono in questi testi un valore didattico e sapienziale (così come in seguito è accaduto per il canone biblico che indica in tale modo il libro di Giobbe)?

Per poter comprendere ciò, è bene dare uno sguardo all’idea di sapienza che era in seno alla percezione socioculturale dei popoli, semitici e no, di quell’area e di quell’epoca (che abbraccia almeno due millenni prima di Cristo).

Concetto moderno di sapienza

In primo luogo, è bene partire da quella che è la nostra idea di sapienza. Dai dizionari possiamo evincere che quello che per noi moderni viene inteso genericamente come sapienza è in gran parte una sorta di condizione di perfezione intellettuale, caratterizzata da grande sapere approfondito che di norma può abbracciare sia questioni afferenti alla realtà terrena sia a quella divina (cfr. il Devoto-Oli, 2014; Treccani – Vocabolario online).

Spesso accompagnano la definizione di questo termine altre parole quali ad esempio ‘possesso’- di grande conoscenza. In qualche modo, questo ci fa capire che la sapienza è un qualcosa di intellettualmente elevato che ha bisogno di un certo processo per essere acquisito e diventa possedimento, percepito solitamente come esclusivo, che dunque fa parte di poche persone e al quale non tutti possono accedere – chissà magari il modo per potervi accedere è dettato unicamente dalle nostre capacità personali e quindi non appannaggio di tutti. Per estensione, poi, in alcuni dizionari ci viene detto che il termine sapienza può anche essere usato per indicare una abilità approfondita, un ‘saper fare’ circa un mestiere pratico: quindi ‘i trucchi del mestiere’ ed altri aspetti che solamente l’esperto conosce e può attuare.

Concetto antico di sapienza

Nell’antichità del Vicino Oriente, invece, è esattamente l’opposto. La sapienza è innanzitutto un ‘saper fare’ o, potremmo anche dire, un ‘saper agire’. Infatti, l’uomo, nel momento in cui nasce, si trova di fronte a tre dimensioni con le quali deve rapportarsi che sono:

  • quella più vasta e generica del mondo, nel quale sono inclusi gli oggetti, il creato inteso come creature animate e non animate, e altri elementi quali possono essere il trascorrere delle stagioni, del tempo, le condizioni climatiche e ambientali…;
  • poi gli altri uomini, che costituiscono una categoria a sé stante: difatti rapportarsi con i propri simili non è esattamente uguale al rapportarsi con altre specie di esseri animati, deve questa dimensione quindi essere separata dalle altre per la sua speciale condizione. Quindi si parla del costante relazionarsi di ogni uomo con l’altro uomo in una dimensione orizzontale;
  • infine, la terza dimensione è quella divina o trascendentale: sia che l’uomo sia religioso o non religioso vi è sempre una dimensione non immediatamente tangibile che è di norma caratterizzata da una dimensione verticale, sia che al culmine di questo si trovi un dio, un’ideale, un concetto o una serie di norme etiche o morali (comunque qualcosa in una posizione più elevata rispetto al singolo essere umano, dalla quale la persona attinge elementi o ai cui elementi aspira, improntando il suo modo di vita).

Dunque, è importante per l’essere umano capire cosa deve fare nella sua quotidianità in rapporto a queste dimensioni che gli vengono incontro e alle quali lui stesso va incontro. La possibilità che ogni essere umano ha di riflettere e praticare durante la propria vita riguardo a queste tre dimensioni in un contesto esperienziale e attraverso un certo processo empirico è quello che determina la formazione di un certo tipo di sapere che normalmente si racchiude in una gamma di conoscenze del mondo, di valori, di considerazioni, di riflessioni, di domande – che hanno la possibilità di trovare risposta oppure no – e di consigli pratici che, tutto insieme, danno vita a quello che noi chiamiamo ‘cultura’ in senso generale.

Per cultura, quindi, intendiamo quegli elementi prima citati che la società, attraverso i singoli individui che partecipano allo stesso contesto sociale, elabora e trasmette alle nuove generazioni (cfr. Schultz E.A. – Lavenda R.H., 2010[1999]: 3). Dunque, questo tipo di sapere ha bisogno di riflessione e di pratica ed inoltre si caratterizza per essere sia fisso – laddove afferisca a questioni fondamentali e universali di base – sia mobile – nel senso che è in continuo affinamento per quanto concerne invece il tipo di comportamento/risposta che ogni essere umano deve dare di fronte a certe problematiche.

Tutto questo è anche ciò che gli antichi interpretavano e definivano col nome di ‘sapienza’: dunque, non solo un sapere intellettuale, ma un vero e proprio percorso, una metodologia, una competenza e una modalità attraverso la quale immagazzinare le esperienze del mondo al fine di dedurne il suo funzionamento, acquisire abilità tecniche e capire come sia meglio agire. Non solo, talvolta è sapienziale anche il semplice soffermarsi su di una questione, enunciandola, parlandone, formulando domande ed aprendo vie (cfr. Ercolani A. – Xella P., 2013: 11-42).

Ricapitolando, dunque, la sapienza è qualcosa che viene acquisito dalla società attraverso un’esperienza empirica e non è appannaggio del singolo, così come non è nemmeno il prodotto di un singolo, ma è invece un patrimonio comune; è caratterizzata sia da fissità sia da dinamicità; e non è solamente un deposito di nozioni, ma anche una metodologia pratica da impiegare per conoscere: comunque ed in ogni caso, si configura come una strada che deve essere percorsa.

Ed anche in seno alla cultura ebraica, che si è sviluppata ed è nata in quel contesto del Vicino Oriente Antico maggioritariamente di impronta semitica, la sapienza è innanzitutto una competenza prima tecnica e poi concettuale, in cui l’osservazione ed il ragionamento sono elementi fondamentali per giungervi, che dà la possibilità di modellare la materia (la sapienza è creativa), ma anche di scrutare la natura e le sue leggi, e fornisce quindi insegnamenti non solo pratici ma anche di ordine metodologico per poter sempre al meglio capire in che modo guardare alle cose per poter trarne il maggiore beneficio (quindi, ad esempio, l’assennatezza, la prudenza e il discernimento sono tutte dimensioni sapienziali) (cfr. Paladino L.C., “La sapienza nei testi biblici”, in Ercolani A – Xella P., 2013).

La sapienza in relazione alla giustizia

Tra i vari aspetti della vita dell’uomo, quello del rapporto con la giustizia risalta nell’esperienza comune di ognuno per la sua problematicità. Infatti, tale tema contemporaneamente afferisce alla dimensione orizzontale – quindi al rapporto tra uomo e uomo – e a quella verticale – cioè tra l’uomo e una dimensione trascendente nella quale si trovi Dio o un ideale o una serie di valori. Questo aspetto è per ogni uomo fonte di questioni, di dubbi e di interrogazioni che urgono risposte, metodologie o pratiche comportamentali che servano ad affrontarlo al meglio.

Tale questione, declinata nella contingenza culturale e sociale della letteratura babilonese, e semitica in generale, viene affrontata attraverso l’indagine circa il rapporto degli uomini con la giustizia non in senso generico, ma, specificamente, con la ‘giustizia divina’. Tale visione, quindi, crea un legame inseparabile tra queste due sfere: quella divina e quella della giustizia. E perché? Perché questo ineludibile confronto con il piano divino? Perché gli dèi – che sono, agli occhi di un credente, la causa e l’origine di tutto ciò che noi vediamo e dell’essere umano stesso – governano molti aspetti del cosmo e ne determinano le sue leggi. Perciò, in ultima analisi, – pure nel loro essere obiettivo e finalità di atti rituali e cultuali – le divinità sono per loro essenza i garanti (quando anche non autori) delle leggi che producono equilibrio ed armonia nel cosmo e tra i suoi abitanti – e in tal modo dagli uomini vengono riconosciuti.

Dunque, per l’uomo del Vicino Oriente Antico, appare evidente che condizioni quali la malattia e il degrado sociale indichino uno stato di fondamentale squilibrio/disarmonia a fronte di una condizione di equilibrio/armonia che invece produce salute e successo in campo pubblico. Allora, se questa armonia si rompe, qualcosa deve essere intervenuto a romperla.

Probabilmente, secondo l’ottica appena descritta, questa rottura è dovuta ad un atto umano che in genere contravviene alle leggi di equilibrio e armonia. Dato che gli dèi scrutano l’agire dell’uomo, quando individuano tale atto, giudicato come malevolo, che contravviene a quelle leggi di cui sono garanti, reagiscono punendo. Tale punizione, in sintesi, è la maniera con la quale l’uomo del Vicino Oriente Antico sembra descrivere questo processo di squilibrio che, sebbene voluto e/o permesso dall’entità divina, è stato comunque ingenerato dal comportamento umano: si parla di un movimento per il quale, una volta immessa nel contesto vitale una azione ritenuta cattiva che rompe l’equilibrio nelle relazioni orizzontali (danno al prossimo) e/o verticali (leggi etiche/morali contravvenute), le conseguenze negative si riverberano su più piani (dal sociale al fisico) come l’incrinatura di uno specchio che, continuando ad avanzare, finisce per spaccarlo interamente.

Questo è alla base dell’idea di malattia o degrado sociale, i quali, dunque, diventano sintomi della presenza, e allo stesso tempo conseguenza, di un atto di male che genera colpa. Ma c’è di più. Dai testi precedentemente presi in analisi, infatti, la riflessione su questi processi nella cultura del Vicino Oriente Antico rileva anche che, nella vita dell’uomo, la sofferenza si presenta pure quando sembra non esserci una colpa a cui ascriverla. Da qui, la trattazione del tema non tanto solo della giustizia o solo del sofferente, ma del ‘giusto che soffre’.

Come si farà, allora, a capire come evitare di commettere una colpa per non ingenerare lo squilibrio/disarmonia (in questo caso malattia ed insuccesso sociale) o riconoscere di averla commessa per, eventualmente, riparare a ciò? Cosa sta alla base di questa rottura di equilibrio? Quali sono le condizioni preliminari a questa rottura di equilibrio? Cosa pensano le divinità? Cosa dobbiamo sapere noi a riguardo? Queste domande sono domande legittime che ogni figlio chiede al proprio padre e che ogni giovane chiede ai propri anziani o che, a sua volta, ogni anziano e padre si premura di tramandare ai più giovani: che, cioè, venga insegnato come vivere nel mondo e come produrre risultati buoni ed evitare cose cattive, in poche parole, che venga trasmessa sapienza.

I testi precedentemente esposti hanno proprio questo come nucleo fondante: trattare il tema della giustizia in rapporto al prossimo e alla divinità con l’intenzione, se non di dirimere tutta la questione, almeno di investigare questo aspetto nel tentativo di offrire, attraverso l’esperienza di vita e la riflessione su di essa (bagaglio sapienziale), un qualche tipo di insegnamento etico e di nozione di ordine pratico volti ad istruire su come vivere al meglio e in maniera più cosciente la propria condizione umana. E giacché questa sapienza si configura come dimensione che nasce in un ambito dinamico che richiede di combinare esperienza e riflessione, la domanda, il dibattito e il confronto tra più personaggi costituiscono l’asse metodologico dell’interrogazione/istruzione che è in sé una delle caratteristiche essenziali della sapienza stessa.

È per questo motivo che, vista la prevalenza di questi elementi in ognuno dei componimenti precedentemente trattati, il tipo di genere a cui appartengono, prima ancora che narrativo/biografico, espressivo, sentimentale o catartico, è dunque quello sapienziale.

Cosa possiamo, allora, trarre da questi testi babilonesi circa la sapienza? Gli esiti sono i più disparati. Quello che si impara solitamente è che la volontà degli dèi è imperscrutabile, che bisogna aver fede nella misericordia del dio e di cercare quanto più possibile di seguire i dettami divini e sociali anche se probabilmente non sempre è garanzia di successo. Forse, moralisticamente parlando, ci viene anche suggerito che dobbiamo rassegnarci al fatto che nessun uomo è “giusto in maniera perfetta” e che, quindi, comunque in ogni caso qualche colpa, per la quale incappare in una punizione, la si commette.

Seppur con moltissimi punti in comune – dal genere letterario al tema, dalle immagini ai dialoghi-, possono essere questi stessi gli esiti della lettura del libro sapienziale, prodotto dalla cultura ebraica per ispirazione divina, che conosciamo come Il Libro di Giobbe?

Con i precedenti testi si è visto come agiscono gli dèi pagani e cosa l’uomo che ha fede in essi può trarre. Ma cosa insegna, invece, il Dio di Abramo all’uomo che ha fede in Lui?

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Consigliamo la lettura di:
– Libro di Giobbe, cap 28
– Libro della Sapienza. cap.1 e 7
– Libro del Siracide, cap.24
– Salmo 37

 

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