La Porta di Giobbe

Varcare la soglia dei libri sapienziali
06 Aprile 2022

“La porta di Giobbe: varcare la soglia dei libri sapienziali” (PARTE 4)

Durante la quaresima di quest’anno abbiamo scelto di offrire, suddiviso in diverse uscite, un testo di Francesco Carbone che ci offre una lettura guidata del libro di Giobbe. Proviamo con esso a uscire dalla lettura usuale del personaggio di Giobbe, uomo dalla “proverbiale” pazienza nell’immaginario profano, e scoprire un modo diverso di approcciare la Parola, libero dalle precomprensioni e aperto alla riflessione sapienziale, dimensione di ricerca che, come molti amici hanno appreso, la Scuola di Preghiera da sempre predilige. Vi auguriamo una buona lettura, a seguire la seconda parte del testo.

LA PORTA DI GIOBBE: VARCARE LA SOGLIA DEI LIBRI SAPIENZIALI (PARTE 4)

IL LIBRO DI GIOBBE

Ci troviamo adesso in Israele, probabilmente nel periodo successivo all’esilio babilonese, quindi attorno al VI secolo a.C. Questo lasso di tempo è individuato tuttavia solo per la datazione della redazione del racconto; infatti, non si può escludere una elaborazione anche se solo di alcune parti che possa essere precedente e che sia stata tramandata per via orale.

L’esposizione della vicenda di Giobbe ci viene offerta da un narratore esterno che introduce il contesto del racconto, i protagonisti e i dialoghi/monologhi da un punto di vista potremmo dire misto: sia interno ai personaggi che ad essi esterno. I versi iniziali di ciascuno dei primi due capitoli creano una atmosfera che si costituisce come prologo alle sventure di Giobbe che vengono poi descritte nei versetti finali di ognuno. In sé, la trattazione della condizione previa di benessere del protagonista e la successiva caduta in disgrazia non occupano un grande spazio. Questi primi due capitoli sono scritti in prosa, esattamente come la gran parte dell’ultimo, il quale funge da chiusura del racconto.

Dal capitolo tre fino alla prima metà del 42 (l’ultimo) si ha la maggior parte del libro di Giobbe. Questa parte è scritta in versi e il suo carattere non è più prevalentemente narrativo: abbondano descrizioni, dialoghi, monologhi ed è da qui che è possibile ricavare una estesa analisi sulla questione circa la giustizia, la sofferenza e la condizione umana in rapporto a quella divina. Come si può dedurre, i protagonisti di questa ampia sezione sono Giobbe, gli amici di Giobbe e Dio.

Un palco per Giobbe…

Quello che appare essere interessante, fin dall’inizio, è la modalità con la quale l’autore inserisce lo sguardo del lettore nel contesto vitale ed esperienziale dell’uomo Giobbe. Il primo capitolo, e anche il secondo, si strutturano agli occhi del lettore quasi come un palcoscenico sul quale si succedono quadretti/scenette intriganti e, in un certo senso come vedremo, ardite.

In primo luogo, abbiamo la presentazione del protagonista della vicenda: Giobbe. Ci sono molti dati interessanti nel racconto dai quali sicuramente, attraverso ogni parola, ogni frase ed espressione, è possibile aprire molte altre porte per la comprensione del testo. In questo caso, tuttavia, ci dovremo limitare ad alcune di queste porte, le quali, comunque, non escludono e né esauriscono l’insieme dei significati possibili deducibili attraverso la preghiera e lo studio.

Ad ogni modo, l’elemento principale che viene trasmesso è che questo protagonista ha un nome (Giobbe), e che questa persona vive nella terra di Uz. Quest’ultimo dato è di un certo rilievo in quanto la terra che viene citata si trova in un territorio immediatamente esterno alla terra di Israele. Dunque, non staremmo parlando esattamente di un protagonista israelita, ma di un uomo che pur vivendo fuori dalla terra di Israele e che tuttavia si relaziona con il Dio di Israele. È una condizione interessante: chissà, probabilmente, vista la più che plausibile ripresa del tema letterario del ‘giusto sofferente’, che già esisteva nella letteratura antecedente di matrice accadica, l’autore del testo di Giobbe è stato portato in qualche modo a riconoscere e dichiarare una sorta di ‘extra-ebraicità’ del personaggio, donando così al testo e alla vicenda un carattere più universale. Non solo, anticamente questa regione mediorientale era nota per aver visto nascere uomini di elevata sapienza. E quindi l’autore fin dall’inizio parrebbe rinsaldare ed enfatizzare il profondo legame tra Giobbe ed il tema della sapienza. Tuttavia, Giobbe è un uomo che ha un rapporto speciale con Israele proprio a causa della sua relazione con Dio.

In più, anche le caratteristiche di quest’uomo sono interessanti. Egli, infatti, viene descritto come una persona integra, retta, timorata di Dio e lontana dal male. Il peso dell’aggettivo ‘retto’ appare essere dirimente nell’orientamento a livello concettuale e spirituale degli altri aggettivi/espressioni che descrivono il personaggio. Se questa persona non fosse stata retta, infatti, probabilmente non avrebbe potuto essere né integra, onesta, onorevole e dunque innocente, da un lato, e dall’altro nemmeno lontana dal male – espressione che spesso viene a trovarsi in condizione antitetica rispetto a quella di atti sanguinari e di danno nei confronti del prossimo (cfr. Schökel, L.A., 2013). Perché possiamo affermare tutto questo? Perché dire che una persona è retta, in ebraico, con una parola che è collegata alla radice lessicale che indica un percorso diritto, senza curve o storture (cfr. Schökel, L.A., 2013), ci offre proprio una dimensione non tanto statica della condizione della persona che si sta descrivendo, quanto invece sottolinea di questa persona una disposizione interna piuttosto dinamica, che favorisce la possibilità di percorrere il cammino della propria vita seguendo un sentiero, appunto, diritto e quindi privo di strade secondarie che metaforicamente indicano invece una condotta perversa e malvagia. Se questa persona è retta, significa che è posta su un cammino retto, e se si trova su un cammino, allora non può che essere in movimento.

E a tale proposito, ricordiamo, poi, che Dio, nella mentalità di Israele, non è un Dio fermo, ma è un Dio che procede. E questo è uno schema sempre vero e sempre applicabile nell’esperienza del popolo eletto tanto da descrivere quasi l’essenza fondante – o almeno quella parte di sé che Dio decide di rivelare al proprio popolo, e prima ancora ad Abramo – cioè di essere un Dio che procede, cammina, che chiama colui che egli ha eletto a seguirlo, a muoversi, ad abbandonare il suo luogo di certezza – che però è asfittico e mortifero – per entrare alla sua sequela, seguendo vie di salvezza. Nel racconto di Esodo, Dio fa uscire il popolo dall’Egitto e lo conduce nel deserto: anche qui, dunque, realizzandosi l’immagine, non del tutto metaforica, di sequela e di un Dio che è con il suo popolo e che cammina di fronte al suo popolo e che conduce il suo popolo. E anche quando il popolo giunge alla terra promessa, e dunque si trova in una condizione diciamo non più di mobilità, la garanzia di quest’alleanza tra Dio e il suo popolo – che si configurava in tutta la logica del tempio nella presenza dell’arca dell’alleanza nel Santo dei Santi – anche questa garanzia, cioè l’arca ferma poggiata forse su un piedistallo, continuava ad avere le aste che erano state quelle che servivano quando il popolo era in cammino per essere trasportata. E ciò starebbe ad indicare che la vita dell’uomo si configura come un percorso, una strada, e Dio stesso più volte nella Bibbia parla di ‘via da seguire’: la sua via.

Quindi, possiamo dire che Giobbe non è presentato come un personaggio compiuto, ma vi è un accenno ad una sua certa dimensione diveniente ed itinerante. Egli si trova in una condizione (quella di uomo retto) che significa appunto trovarsi nel percorso diritto, dunque nel percorso giusto, e questo nonostante non appartenga al popolo di Israele. Egli, dunque, è una persona che sta camminando, o che ha iniziato a camminare – non possiamo esserne sicuri – nella via che indica Dio; e questo procedere di Giobbe sulla via retta gli offre, quindi, la possibilità di agire nei confronti del prossimo e nei confronti di Dio stesso in maniera retta (dunque come dice il testo ‘integro’ e timorato di Dio’- che significherebbe qui ‘pio’ e ‘devoto’).

E proprio questa condizione fa dire all’autore che Giobbe era il più grande fra tutti i figli d’Oriente. E se ci fosse stato qualcuno che fosse entrato in contatto o avesse sentito parlare di altri personaggi che avevano vissuto, in ambito letterario, una vicenda simile a quella di Giobbe, avrebbe dovuto sapere che il protagonista di questa vicenda biblica si trovava in una posizione sicuramente più elevata rispetto a tutti gli altri.

Allora potremmo chiederci: di questo suo percorso nel sentiero della conoscenza di Dio e delle sue vie, a che punto si trovava Giobbe? È una domanda che possiamo porci, sì, ma è una domanda alla quale non sappiamo bene come rispondere perché non è esplicitamente riportato nel testo. Tuttavia, è una domanda che ci ritornerà in mente quando finalmente vedremo Giobbe confrontarsi con i limiti e le criticità proprie ed ineludibili della condizione umana.

Per concludere, visto che l’autore ha inizialmente esposto quale fosse la qualità della dimensione verticale nel rapporto con la divinità nella vita del protagonista, questo quadretto di presentazione di Giobbe si conclude nei versetti seguenti dando il senso anche della qualità della dimensione orizzontale nella vita del protagonista: quindi nel rapporto con i suoi simili. Questi erano molto buoni; tra l’altro Giobbe aveva molti figli e viveva bene con loro. Vi erano banchetti, convivialità e Giobbe addirittura cercava di intercedere per i propri figli anche senza essere sicuro se avessero commesso qualche tipo di peccato. Giobbe, quindi, ancora una volta è presentato come una persona onorevole, onesta ed innocente.

…e un palco per Dio

Ad un certo punto, la scena cambia. Ci troviamo ora di fronte ad un’altra piccola rappresentazione. L’autore, e questa volta visibilmente staccandosi dalla tradizionale mise en scene dei testi anteriori che trattano il tema del giusto sofferente, si stacca dalla dimensione umana per parlare di cosa accade nella sfera divina. Nei testi babilonesi precedentemente analizzati questa cosa non accade: non sappiamo mai cosa dice, cosa pensa o cosa fa la divinità prima di punire il devoto. Della divinità possiamo magari avere qualche affermazione, qualche enunciato, sicuramente la descrizione del suo agire – la misericordia che utilizza nei confronti del protagonista a fine racconto, e all’inizio il suo punirlo, colpirlo con la sventura – ma quello che avviene nella coscienza del dio prima della punizione, prima dell’intervento divino a sfavore della creatura, non sappiamo nulla. Un dato interessante nel libro di Giobbe, invece, è che, in qualche modo, questo ‘prima’ l’autore tenta di esplicitarlo.

Il contesto è un contesto particolare. Se pensiamo al fatto che Dio non si può nemmeno nominare, è abbastanza arduo creare quello che l’autore del libro di Giobbe crea dal versetto 6 al versetto 12 del primo capitolo. Per questo in precedenza si è parlato di un autore ardito. Di fatti, è un po’ come cercare di mettere sotto forma di narrazione un’intenzione divina o un pensiero divino o quantomeno qualcosa che gli si avvicini. E la narrazione è quell’espediente che si presta molto a tale opera di spiegazione/esemplificazione.

Al fine di compiere questo tentativo di creare una cornice narrabile del mondo divino, ovviamente essenzialmente simbolica e metaforica, l’autore opta per un tipo di contesto che richiama alla dimensione monarchica che è tipica della visione della realtà superna nel contesto culturale del Vicino Oriente Antico. Dunque, in questo processo letterario, la sfera divina è per forza di cose soggetta alla dimensione temporale caratteristica della sfera umana e così il versetto 6 inizia con l’espressione: «Ora, un giorno…», come se fosse possibile contare i giorni all’infuori della dimensione di tempo e di spazio nella quale si trova Dio. Però è proprio questa la sfida che propone l’autore che cerca in qualche modo di dire qualcosa di Dio – per questo tale contesto per forza deve essere letto in maniera simbolica e metaforica.

Qual è dunque questa scena? Ci troviamo, come è stato detto in precedenza, in un contesto monarchico. Appena dopo la presentazione in chiave temporale del momento in cui l’azione accade, ci viene detto che i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore. Ricordiamo che questa espressione (figli di Dio), presente in pochi altri punti della Bibbia, rappresenta il consiglio della corona celeste presieduto da Dio-re (cfr. Ravasi G., 2008: 534-535). In quest’ottica, Dio-re è normalmente circondato dai suoi principi-dèi di natura inferiore – in epoche successive connotati come angeli – della cui inferiorità nella natura e nella potenza erano ovviamente a conoscenza gli israeliti e anche l’autore. Tuttavia, probabilmente per quell’epoca, questo era ancora un contesto metaforico/simbolico utilizzabile ed accettato e non passibile di fraintendimento circa l’idea di monoteismo. Vediamo, inoltre, che viene usata la parola figli, ma non dobbiamo essere tratti in inganno, quello che dobbiamo capire noi essenzialmente è che in questa immagine monarchica, vi è la presenza di figure che non sono umane, ma anche che non sono divine allo stesso modo di Dio. Probabilmente, solo attraverso questa struttura, all’epoca era possibile parlare dei pensieri di Dio, nel tentativo di cercare di capire quello che Dio pensa e dei propositi alla base del suo agire. In questo modo, era anche possibile creare un contesto dialogico che meglio esplicita la struttura di un pensiero con tutti i suoi passaggi. È interessante poi notare come il ragionare di Dio non sia stato sempre reso, in particolare nelle fasi più antiche, in un contesto di soliloquio/monologo, ma in un contesto di dialogo e, in un certo senso, di confronto.

Dunque, tutti questi personaggi che sono indicati con l’espressione ‘figli di Dio’ possiamo semplicemente vederli come i ministri di questa corte celeste, di questo consiglio celeste di cui Dio è re, giudice e presidente.

Poi, ci viene detto dall’autore che uno di questi ministri è Satana. A questo punto, non dobbiamo essere tratti in inganno. In questo caso, non stiamo parlando del male assoluto, ma di quel ministro di Dio puntiglioso e tendente all’accusa: d’altronde proprio la radice che sta in questo nome ha significati che hanno a che vedere con l’essere nemico, opporsi, accusare, odiare (cfr. cfr. Schökel, L.A., 2013). È un po’ come il pubblico ministero in questo tribunale divino e un servitore categoricamente fedele alla norma divina che scruta l’uomo cercando di trovare il marcio.

L’altro aspetto interessante è che non sappiamo bene con quali occhi stiamo guardando questa scenetta: se con quelli di un esterno o quelli di Dio stesso. Perché domandarsi ciò? Perché è interessante interrogarsi sul motivo per il quale tra tutti i figli di Dio, quindi tra tutti i ministri del consiglio, ci viene detto che vi era anche Satana – la qual cosa potrebbe non essere di enorme rilevanza giacché in quanto ministro anch’egli di solito si sarebbe dovuto trovare all’interno del consiglio. Eppure, l’autore ci dice quasi in modo speciale che anche egli c’era e andò in mezzo a loro, in mezzo agli altri ministri.

Altro elemento interessante è il fatto che la direzione del ministro non era quella di andare al cospetto di Dio-re, ma di andare in mezzo agli altri, diciamo, suoi colleghi. E Dio intraprende un’azione in questa scenetta: rivolge una domanda all’ accusatore/Satana ministro. Quindi questo accusatore viene interpellato. Ciò, tuttavia, non risulterebbe, nell’ottica della dimensione monarchica del consiglio divino, un qualcosa di strano: infatti Dio, ai suoi ministri, ai suoi consiglieri, può tranquillamente rivolgersi, se ha bisogno di parlare, se ha bisogno di confrontarsi o di chiedere qualcosa in merito al suo regno o al suo governo. Eppure, tra tutti, Dio-re sceglie il ministro più puntiglioso, e gli chiede dove fosse stato. Il ministro risponde che ha percorso la terra in lungo e in largo. Potremmo pensare che sia un giro solito di questo ministro: d’altronde se è puntiglioso, se deve scovare il marcio nelle persone e se deve trovare qualcosa di cui accusare, possiamo immaginarcelo come un personaggio che quindi usa il suo tempo per andare a ricercare questi elementi, compiendo anche in questo il suo carattere di puntigliosità e categoricità.

 

Seguici su tutti i nostri canali:

– Iscriviti al nostro canale Youtube

– Metti ‘mi piace’ alla nostra pagina FACEBOOK
– Iscriviti alla nostra Newsletter
– Ascolta tutti i podcast pubblicati sul sito alla PAGINA AUDIO

Lascia un Commento

La preghiera di Gesù // Musica Sacra
icon-downloadicon-download
  1. La preghiera di Gesù // Musica Sacra
  2. Isusova Molitva // Musica Sacra
  3. Preghiera di Gesù // Musica Sacra
  4. Agni Parthene // Musica Sacra
  5. Te Deum // Musica Sacra