La Porta di Giobbe

Varcare la soglia dei libri sapienziali
08 Giugno 2022

“La porta di Giobbe: varcare la soglia dei libri sapienziali” (PARTE 7 – CONCLUSIONE)

Durante la quaresima di quest’anno abbiamo scelto di offrire, suddiviso in diverse uscite, un testo di Francesco Carbone che ci offre una lettura guidata del libro di Giobbe. Proviamo con esso a uscire dalla lettura usuale del personaggio di Giobbe, uomo dalla “proverbiale” pazienza nell’immaginario profano, e scoprire un modo diverso di approcciare la Parola, libero dalle precomprensioni e aperto alla riflessione sapienziale, dimensione di ricerca che, come molti amici hanno appreso, la Scuola di Preghiera da sempre predilige.

In questa pubblicazione trovate la settima (e ultima) parte, oltre ai link in fondo all’articolo per ritrovare tutte le precedenti uscite. Vi auguriamo una buona lettura!

LA PORTA DI GIOBBE: VARCARE LA SOGLIA DEI LIBRI SAPIENZIALI (PARTE 6)

La manifestazione di Dio

Ma Dio ora deve dare una risposta a Giobbe. E la risposta non può essere circa la sua giustezza o la sua colpevolezza che, ricordiamolo, non sono mai state la vera preoccupazione di Dio fin dall’inizio. Dunque, vogliamo ricevere una risposta autentica? Di fronte all’esperienza di Giobbe, vogliamo quindi capire, orientarci su come guardare al nostro rapporto con noi stessi, con il mondo, con il prossimo e con Dio attraverso una conoscenza che dia sapore a ogni fatto della nostra vita? Ebbene, attraverso la manifestazione di Dio a Giobbe, comprendiamo che per fare questo dobbiamo distruggere tutte le immagini che ci siamo fatti di Dio stesso, tutte le proposizioni che contengono troppi ‘io’ e che non pagano mai. Dobbiamo, quindi, metterci alla sequela di Dio ed aspettare che Egli parli. Lo dice Dio e poi lo dice Giobbe, come fosse una metodologia salvifica nuova rispetto alle logiche esposte nelle letterature precedenti: “io ti interrogherò e tu mi istruirai”. Interrogare ed istruire, ricordiamolo, sono alla base della Sapienza.

E come risponde Dio a Giobbe? Innanzitutto, con voce potente. Lo possiamo immaginare giacché interviene in mezzo all’uragano. Dice Eliu qualche versetto prima «Dio tuona mirabilmente con la sua voce, opera meraviglie che non comprendiamo!» (Gb 37,5). San Gregorio Magno afferma riguardo a questa immagine che la voce del Signore è come una forza nascosta che penetra i cuori (cfr. Ravasi G., 2008: 529). E di fatti, a seguito del gran parlare di Giobbe che si strugge nel non capire cosa stia accadendo e pretende da Dio una risposta, Dio non rimane in silenzio, anzi si premura di intervenire. E come interviene? Punendo? Annientando? No, parlando (lo stesso atto che fece quando creò). E questo suo parlare lo fa in modo da non dare una mera spiegazione superficiale dei fatti, ma piuttosto produce il suo dire in una modalità che, come affermava Gregorio Magno, giunge dritta al cuore dell’uomo. Infatti, la tempesta, l’uragano, il turbine sono elementi che nella cultura del Vicino Oriente Antico simboleggiavano l’esperienza teofanica: la presenza, il mostrarsi delle divinità (cfr. Ravasi G, 2008: 521-543). Ma se l’uragano, la tempesta, la burrasca e il tuono producono rumori potenti ma inarticolati e caotici, la voce invece produce la possibilità di una sequenza di suoni ordinati e comprensibili. E allora Dio si mostra, sì, nella tempesta, ma non lascia che sia l’indefinitezza e il caos a regnare, piuttosto rende tale esperienza di rivelazione intellegibile e possibile alla comprensione umana. La burrasca e l’uragano si svolgono in maniera impattante e sovrastante, il Signore che è stato chiamato è finalmente giunto in tutta la sua potenza, si mostra maestoso, il tuono scoppia roboante, ma il Signore lo modula in voce e l’uomo, che poteva rimanere schiacciato e disorientato, è così reso partecipe del mistero.
E Dio, quando interviene rispondendo a Giobbe, cosa dice? Compie un’opera di rimemorazione. Riinizia da capo, dal principio, da quello che era da sempre in mente, dalla logica da cui tutto parte, dalla sua Sapienza. E questa Sapienza Dio, a differenza dei poemi babilonesi, la espone, la rende chiara e manifesta, la rende incontrabile e ricercabile. Nulla dovrà essere più imperscrutabile e senza senso. E la risposta di Dio a Giobbe consiste proprio nel ripercorrere tutto ciò e, così facendo, contemporaneamente, si ristabiliscono le parti: Dio creatore, uomo creatura.

Dio, in questa risposta, ricorda tutto quanto quello che Lui ha fatto in quanto creatore, ribadisce tutta la conoscenza che ha in quanto creatore ed espone tutta la logica che ha messo nella sua creazione. Una creazione che si delinea come dono alla sua creatura. Dunque, smarcando ogni deriva moralistica e moraleggiante, il Signore ricorda che tutto quanto vi è di godibile nella creazione non è emanazione di una ricompensa rispetto a una giustezza – presunta o reale – ma innanzitutto grazia, a partire dal dono della vita. E la possibilità dell’uomo di riconoscersi come creatura, cioè come colui che non si sia guadagnato quello in cui vive attraverso alcun merito, ma che lo ha ricevuto e lo ha ricevuto per una finalità – che solo La Sapienza che dà discernimento permette di accogliere e comprendere – questo è il vero modo di concepire la relazione con Dio. Allora, della potenza di Dio, Giobbe capisce che essa risiede proprio in questo: in un Essere che in primo luogo si comunica e si comunica in maniera gratuita, offre in maniera gratuita e che è trovabile e sperimentabile in ogni circostanza. E se la vita dell’uomo è fatta di limite, che porta sofferenze fisiche o spirituali, la potenza di Dio non sta nel premiare o nel privare qualcuno perché più bravo o meno bravo, più meritevole o meno meritevole, ma piuttosto nel rendere tutto (abbondanza e difficoltà) un luogo di incontro con Lui. Così, ogni circostanza, anche la più infima, come quella nella quale Giobbe si trovava, diventa – come è raccontato – teofanica. E a partire da questa ferita lenita dall’unguento di Dio, ogni giogo opprimente è spezzato ed infine proprio l’essere umano, nella misura in cui ha la capacità di discernere la propria vita, diviene egli stesso luogo di incontro con Dio e di salvezza per il prossimo.

Giobbe compie il suo cammino

Quando Giobbe sperimenta tutto questo, allora, può affermare: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto» (Gb 42,5). E ricordiamolo, questo viene detto con meraviglia e stupore da Giobbe non quando la grazia di prima viene ristabilita, ma proprio quando Giobbe ancora è malato e sofferente nella polvere. Dio era lì, se ne doveva solo accorgere. Allora sarà ancora possibile affermare che la Sapienza di Dio è inconoscibile e imperscrutabile? Lontana e inafferrabile? Sì, ma solo se decidiamo di ergerci a dèi poiché, non essendo noi gli artefici né di quello che ci circonda e nemmeno di noi stessi, possiamo illuderci di poter governare tutto, ma prima o poi tutto ci sfuggirà rovinosamente dalle mani e piomberemo nella confusione. È invece necessario abitare la nostra identità umana per accogliere la gloria che Dio ci offre (cfr. Rm 8,28-30). Solamente allora, Dio si fa avanti per riempirci della sua Sapienza – infatti lei ci aspetta – e inoltre Dio si presenta davanti a noi senza disdegnare la nostra condizione, come noi stessi faremmo, anzi, ci rende forti quando siamo deboli (cfr. 2Cor 12,10), quando siamo nella polvere (come Giobbe). Dio non aspetta che siamo puri, ma che abbiamo un cuore che ha sete di Lui.

Una volta che Giobbe ha conosciuto Dio, che lo ha visto dalla polvere, questa grazia viene ristabilita, e il dono è vissuto in maniera autentica. Non solo, Giobbe diviene lui stesso intermediario della salvezza e del perdono nei confronti di quegli amici che prima lo accusavano. Giobbe ora veramente ha spezzato quel circolo vizioso che, in un’ottica egocentrica e auto-trascendente, perde il vero rapporto con Dio e distrugge il rapporto con il prossimo.

Alla fine del libro, Giobbe ha percorso un lungo cammino. Lui che, essendo retto, si trovava sulla via dei giusti ha dunque camminato sulla strada che lo ha portato a incontrare la Sapienza – come è scritto: «Sulla via dei giusti io [la Sapienza] cammino» (Pr 8,20) – la quale gli ha permesso di contare i propri giorni (cfr. Sal 89,12). Ed infatti, morirà sazio di essi (cfr. Gb 42,17): quindi, possiamo intendere che ognuno di loro ha avuto sapore ed è stato vissuto in pienezza (capovolgendo quella maledizione iniziale di Giobbe, nella quale lui desiderava di non essere mai nato): «Per mezzo mio [della Sapienza] si moltiplicheranno i tuoi giorni, / ti saranno aumentati gli anni di vita» (Pr 9,11).

GIOBBE HA DISCHIUSO LA PORTA DEI LIBRI SAPIENZIALI: POSSIAMO VARCARE LA SOGLIA

A questo punto, quando nel Libro di Giobbe troviamo scritto che “principio della Sapienza è il timor di Dio”, adesso in forza dell’esperienza di Giobbe, si comprende il perché questo libro sia posto come soglia della raccolta dei libri sapienziali. E non comprendiamo più il termine timore come un banale sinonimo di terrore, paura, panico, tremore o spavento, i quali alla fine ingenerano diffidenza e sospetto. Infatti, Dio che si offre e che si vuol far conoscere non potrebbe certamente mai creare come porta alla Sapienza un sentimento di sospetto e paura, nessuno la varcherebbe.

Piuttosto, con la logica di: “Io ti interrogherò e tu mi istruirai”, finalmente, Dio e l’uomo si pongono nella giusta relazione, quella che l’autore del Libro si premura di sottolineare, cioè quella di maestro-discepolo, e perché no, padre-figlio. E questo, infatti, è il percorso della Sapienza così come si è analizzato anche in precedenza tanto in seno alla cultura del Vicino Oriente Antico e del Mediterraneo come in quella ebraica.

Allora perché usare il termine timore? Il ‘timore di Dio’ è una espressione che in origine richiamava il sentimento di stupore e rispetto che si ha quando ci si trova di fronte ad un elemento meraviglioso e sovrastante. Ed anche quando si sia inteso che da questo elemento non vi è nulla di cui aver terrore, l’intenso desiderio di relazionarcisi in maniera corretta, evitando di poter rovinare o incrinare questo emergente rapporto, conduce l’atteggiamento umano a fare in modo che tale processo avvenga con accuratezza e accortezza, con delicatezza e acume. Il timore, dunque, risponde ormai non tanto al terrore di fare qualcosa per la quale la divinità si possa inquietare, ma al criterio di rispetto e di cautela volti ad un prendersi cura (che è reciproco) di una relazione (Dio-uomo) la quale è desiderata, ricercata, agognata, delicata, ambiziosa eppure resa raggiungibile. Una relazione che, per costruirsi, ha bisogno di tempo e di ascolto.

Attraverso il timore di Dio, dunque, tutto quanto quello che ci viene chiesto è di lasciar parlare l’altro per eccellenza (Dio), permettendoci, così, di accogliere il dono da parte del Creatore che consiste nel ricevere da lui ogni tipo di grazia e sovrabbondanza per poter partecipare con Lui di ciò che gli appartiene, ed in particolare, la capacità di poter intendere in pienezza e completezza l’intima logica delle cose – che è quello di cui Dio ci vuole far dono – e che noi, per sospetto, (con Adamo ed Eva) non abbiamo preso come dono, ma abbiamo al contrario razziato in maniera immediata, pervertendolo e senza capacità di usarlo.

Allo stesso modo in cui Giobbe entra nello stupore di fronte alla manifestazione di Dio, uno stupore genuino e reverenziale, così Adamo avrebbe dovuto fare di fronte al frutto, aspettando che fosse donato, e come ognuno di noi di fronte al dono più bello che si possa ricevere, rimanere quasi senza fiato, esclamando con gioia e riverendo dono e donatore. Ma Adamo ha sospettato che questo frutto non fosse per lui, ha sospettato che Dio non cercasse una relazione piena con lui e che Dio, anzi, temesse di aprirsi alla sua creatura per mostrare i Suoi tesori. Allora, con tale sospetto – che non è figlio della Sapienza – il ricevere si è pervertito in razzia, e la razzia è diventata poi la logica per Adamo con la quale agire, come ha fatto nella sua dimensione verticale così trasferendola a quella orizzontale, e l’altro, che sia Dio o il prossimo, è diventato sospetto e forse nemico e, a volte, l’ostacolo da superare.

Attraverso la lettura del libro di Giobbe, abbiamo intravisto invece un altro tipo di logica, quella della Sapienza. Quella che necessita di ascolto e tempo, che ha bisogno di fiducia e consapevolezza della grandezza a cui Dio chiama l’uomo.

Il timore di Dio, questo è Sapienza.

RILEGGI TUTTO IL TESTO:
LA PORTA DI GIOBBE – PARTE 1
http://LA PORTA DI GIOBBE – PARTE 2
http://LA PORTA DI GIOBBE – PARTE 3
http://LA PORTA DI GIOBBE – PARTE 4
http://LA PORTA DI GIOBBE – PARTE 5
http://LA PORTA DI GIOBBE – PARTE 6

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1 Risposta

  1. Francesca

    Grazie Francesco,
    mi sono chiesta ‘è ricerca tutto ciò che ci hai regalato? no è un atto di amore ed è bello che i fratelli siano insieme e ci sono tanti modi per esserlo tu hai scelto il tuo: interrogare e ascoltare come fanno i bambini: chiedono ascoltano e si fidano.
    Un abbraccio
    Francesca

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