Catechesi

di Padre Enzo Tacca (OfmConv)
29 Settembre 2016

Il Cenacolo di Pentecoste

4737Bene, avete seguito questo tracciato del capitolo 7 e il primo versetto del capitolo 8 del Libro della Sapienza che ci aiuta un po’ ad avvicinarci al mistero della presenza dello Spirito Santo in tutta la storia della salvezza. Infatti il Libro della Sapienza è uno dei libri dell’Antico Testamento dunque risente di una logica diremmo “pre-cristiana”, sebbene contenga qualcosa che alle nostre orecchie risuona familiare: quando si parla di questa sapienza che penetra nelle età e forma amici di Dio e profeti, tu con le orecchie del tuo Battesimo, subito intendi una presenza speciale dello Spirito in te che ti infonde il dono della profezia  e la capacità di interpretare la storia secondo i progetti di Dio. Allora prima di arrivare insieme al “Cenacolo della Pentecoste”, secondo il titolo che abbiamo dato a questo incontro, vorrei che facessimo insieme una carrellata di immagini che aiutano ad avvicinarci alla Terza Persona della Santissima Trinità, prima ancora che si riveli come tale, prima ancora che possiamo inquadrarla secondo i canoni della teologia e della dottrina. Vorrei con voi, quasi idealmente, ricollocarci tutti insieme al momento in cui lo Spirito di Dio aleggia sulle acque, siamo nel Libro del Genesi, siamo all’inizio, prima ancora che Dio cominci a parlare. Nel Libro del Genesi al momento in cui si dice che lo Spirito di Dio aleggia sulle acque la terra è ancora informe  e deserta, il caos, la disarmonia, la confusione, se volete, lo Spirito di Dio che aleggia sulla creazione sembra quasi che nel silenzio abissale della preistoria stia là a guardare come tutte le cose  si organizzeranno secondo il disegno dell’Altissimo che Egli conosce e che intende mettere in atto. Noi siamo idealmente con Lui in quel momento, perché anche noi siamo stati chiamati nel tempo con la stessa parola con la quale Dio Padre ha chiamato la luce, ha chiamato tutte le cose e le ha ordinate secondo un piano meraviglioso che a noi è dato di contemplare. Dunque attraversa fin dalla creazione lo Spirito, tutta la prima organizzazione delle cose, imprime a tutte le cose l’immagine del Figlio di Dio, ed in modo manifesto e splendente nella creazione dell’uomo, e voi lo sapete che l’uomo appena ha consapevolezza di essere fatto a immagine di Dio, e dunque capace di relazione come Dio che lo ha creato è in relazione, appena percepisce questa capacità, trova in sé una divisione interiore, un pensiero serpeggiante si mette tra ciò che lui percepisce di sé, ciò che percepisce di ciò che ha davanti e ciò che percepisce dell’amore di Dio. Questo pensiero serpeggiante scinde l’uomo, lo divide in se stesso, gli fa dimenticare che l’immagine che porta è già di Dio e quindi potremmo quasi avanzare la definizione che questa immagine che porta di Dio, quasi, quasi, è un seme di Dio, è qualcosa quasi consustanziale con Dio, Dio mi perdoni, qualcosa che appartiene a Lui e che all’uomo in qualche modo è stato dato. Egli non ne è consapevole ma comincia a dubitare quando si accorge che il male, che la divisione, che la difficoltà nella relazione sono più forti. In fin dei conti Adamo non è tanto diverso da te, pure tu che concepisci la possibilità di fare il bene e hai il desiderio di compierlo, ti accorgi che le condizioni nelle quali ti trovi a vivere la tua fede, la tua vita umana, sono costantemente in pericolo proprio a causa di questa difficoltà nella relazione. La storia ti viene incontro mettendoti a disagio, le relazioni ti ricordano che tu sei incapace di amare, qualche volta persino di ricevere l’amore da parte di Dio e dell’altro. Dunque questa sapienza che era presso Dio mentre Dio creava l’universo, come guardava all’inizio la realtà informe della terra, ora si è messa ad osservare la realtà resa informe dello spirito dell’uomo, ora contempla la divisione dell’uomo e allo stesso tempo il desiderio di Dio di ricongiungere le parti che dividono l’uomo in se stesso, finché, ci dirà Gesù nel Vangelo di Giovanni (Gv17,21), non torniamo ad essere una cosa sola come Lui e il Padre sono una cosa sola. L’uomo non sa come ha lo Spirito, non sa neanche di avere lo Spirito, solo percepisce la sua relazione con Dio e con se stesso, modellata su un progetto più grande, lo percepisce, lo intuisce e pure lo celebra, nella religiosità naturale per esempio, lo celebra in molti modi, lo ricerca, si mette in cammino, fa lunghi percorsi per cercare l’origine e la finalità del suo essere. Poi finalmente quest’uomo comincia a cercare verso l’alto, un uomo diviso, abbiamo detto, comincia a cercare verso l’alto, vi ricordate che cosa succede? Costruisce la Torre di Babele, oggi lo chiameremmo con i nostri termini un tentativo autotrascendente, si inventa la trascendenza da sé, mette mattone su mattone, una pietra dopo l’altra, diceva un canto poco francescano forse, per arrivare da qualche parte, non sa neanche esattamente dove, ma voi sapete che questo tentativo di raggiungere il cielo gli si ritorce contro e la prima esperienza che l’uomo fa è una divisione non più solo internamente ma una divisione nella relazione con gli altri perché le lingue sono diventate ormai incomprensibili, perché ormai non ci si può più mettere d’accordo nel perseguire la finalità, pure ritenuta buona e vera: cioè ricercare Dio, andare verso di Lui, ascendere verso di Lui. È una categoria importante, la rivedremo più in là stasera. Non sapeva l’uomo che l’amore discende, che l’amore si impara, che semmai l’amore si trasmette, è l’amore, coma la sapienza, che penetra nelle generazioni e ne fa una stirpe di santi e di profeti, e questo amore viene da Dio e quest’amore è Dio, direbbe il filosofo russo Bulgakov, è un amore che compie quasi un abbassamento di Sé, quasi come dovesse lasciare la Trinità, non la lascerà mai evidentemente, ma è un amore che compie una kènosis, un abbassamento. Egli tuttavia non si svuota di Se Stesso, ti ricordi la Lettera ai Filippesi? Si dice del Verbo che pur essendo di natura divina non considera un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio ma si svuota di queste prerogative divine per assumere la carne mortale senza umiliarla, senza metterla in difficoltà (Fil 2). Lo Spirito no, lo Spirito non rinuncia alle prerogative divine, non si spoglia delle prerogative divine, le conserva, le mantiene, solo raggiunge l’uomo nella sua ricerca e sta davanti a Dio, per così dire, nel compimento del progetto della santificazione, della salvezza. Dalla torre di Babele, pian piano, si forma una umanità sempre nuova, sempre diversa, fino alla chiamata di Abramo (Gen 12), fino al sacrificio di Isacco (Gen 22), fino alla lotta con Dio di Giacobbe (Gen 32,23-33). Vedete come ricorrono tutte le categorie che stanno sempre davanti ai nostri occhi, che sono quelle della rivelazione, e poi finalmente Dio decide di intervenire in un modo nuovo quando attraverso Mosè pensa di salvare il suo popolo dall’Egitto. Ti ricordi che cosa vede Mosè? Non vede Dio, a dire il vero vede ben poco, vede qualcosa che non sa spiegarsi: un roveto che arde ma non si consuma (Es 3). Voi direte: “Ma ne sente la voce”, certamente, ma veramente indecifrabile, questa voce dice di conoscere Mosè, dice di avere un popolo che vuole  salvare ma al momento in cui gli si chiede: “Chi sei?”, non lo dice, o meglio, lo dice non dicendolo: “Io mi mostrerò, Io mi farò conoscere, Io quando interverrò nella storia per salvarti, allora tu gradualmente mi intenderai, gradualmente mi comprenderai, ma saranno i fatti a dire dove Io passerò , che cosa farò, e sai perché? Perché tu sei debole, non resisti alla visione beatifica, non riesci ad immaginare l’eternità così com’è, hai bisogno di fare un cammino”. Un cammino, un progresso, un itinerario salvifico che diventerà con Mosè il nostro paradigma classico e cioè l’Esodo. In quest’Esodo Dio si mostra in alcuni modi, Dio agisce, Dio parla, ma soprattutto appena usciti dall’Egitto il popolo sa che Dio, questo non è la Scrittura che ce lo dice ma l’ebraismo talmudico, il trattato dei Midrashim, ci dice che Dio ha fatto capire a questa gente che è venuta via dall’Egitto che il suo vantaggio non è solo e non ancora quello di avere riconquistato la libertà rispetto all’aguzzino, rispetto al faraone, ma che un dono è là pronto per questo popolo, questo dono si manifesterà cinquanta giorni dopo l’uscita dalla terra del faraone e si manifesterà con un’immagine in Esodo 19 che noi possiamo anche un po’ riconoscere. Come si manifesterà? Quando Mosè salirà sul monte per ricevere l’insegnamento di Dio, per contemplare il volto di Dio in qualche modo intuendone il pensiero, portandolo al centro del proprio essere, per raccontarlo all’assemblea degli anziani e poi al popolo e per trasmetterlo a tutte le generazioni, si troverà davanti uno spettacolo terrificante: rombo di tuono, fulmini, vento impetuoso, tutte le caratteristiche che dicono che Dio sta intervenendo, sta intervenendo in modo potente, definitivo, stabile e che finalmente darà i contorni al cammino che Dio intende fare con l’uomo. Cosa promette Dio all’uomo? Promette di farsi conoscere, di farsi conoscere veramente, di farsi investigare persino, cioè come se dicesse a Mosè: “D’ora in poi avvicinatevi, entrate al centro del mio essere e guardate cosa c’è”. Come lo fa? Lo fa attraverso la Torah, quella che noi abbiamo chiamato un po’ improvvidamente la Legge, la Torah, l’insegnamento, il pensiero di Dio come è intuibile, comprensibile all’uomo. Quelle parole con le quali Dio ha chiamato le cose nella creazione, “Sia la luce”, quelle che hanno diviso le acque dalle acque, che hanno creato tutti gli esseri viventi diventano parole di sapienza, diventano un linguaggio che l’uomo può ascoltare, può capire, può memorizzare, può ridonare, è la tradizione, la trasmissione se volete, della Torah, di questo insegnamento. Donato nel rombo di tuono, solo Mosè ha potuto vederlo, diventa appannaggio di tutto il popolo. Allora noi intuiamo la presenza di questa Persona di cui stiamo provando a parlare, come è presente nel roveto ardente, come era presente all’inizio, come si rende presente attraverso le Scritture, attraverso l’insegnamento di Dio che è la Torah. D’altronde noi nel “Credo” diciamo: “Credo nello Spirito Santo che è Dio, che procede dal Padre e dal Figlio”, che ci ha aperto all’interpretazione delle Scritture che ci ha permesso Lui che ha messo le parole di Dio nel pensiero degli uomini. Egli anche si fa garante della possibilità che gli uomini hanno di trarre queste parole dall’esistenza di tutte le cose, anzi mette l’uomo nelle condizioni di re-investigare le cose per vedere dove queste parole di Dio che hanno creato ogni creatura si sono nascoste. Quando il giudaismo ripenserà tutta questa epopea, quando si rimetterà davanti, volendo celebrare le feste come è nel Libro del Levitico, vorrà celebrare tutte queste cose accadute, allora consegnerà agli uomini, consegnerà al popolo di Israele un precetto, in ordine al comandamento di santificare le feste è chiesto agli israeliti di ricordare l’uscita dall’Egitto con un rito. Ora, sapete, l’uscita dall’Egitto è Pesach, la Pasqua, e la Pasqua viene a primavera, siamo in un tempo in cui finalmente nella Terra di Israele, dopo un anno, diciamo così, da quando questi sono entrati, in cui finalmente c’è il primo raccolto. E sapete qual è il primo raccolto nella Terra di Israele? Certo è una terra dove scorre latte e miele, dove ci sono grappoli d’uva che gli uomini portano a spalla per quanto sono grandi. Ma sapete qual è il primo raccolto? È un raccolto piccolo, semplice, povero: è il raccolto dell’orzo, somiglia al frumento, somiglia al grano ma non è ancora, non ha la bellezza, la fragranza, la bontà del grano. Allora raccomanda questo comandamento agli israeliti: “Quando volete ricelebrare l’uscita dall’Egitto, prendete un covone di orzo, portatelo al sacerdote perché lo agiti davanti a Dio” (Lv 23, 9-14). Guarda un po’:  un covone di orzo. Sembra, quasi quasi, per farne una lettura allegorica,  sembra la prima offerta che hai la capacità di fare tu: un’offerta ancora povera, non degna del dono di Dio, sapete l’orzo dalle nostre tavole è assolutamente dispensabile, chi è di voi che mangia l’orzo? Nessuno, ma il frumento lavorato almeno lo mangi nel pane. Dunque una prima offerta che dice una liberazione ma non dice ancora una identità, non è per l’orzo che questa gente si è mossa dall’Egitto, però dice anche questo precetto del Libro del Levitico, dice anche: “Ma alla fine, dopo cinquanta giorni, quando ti sarai avvicinato alla feste in cui si ricorda il dono della Torah, tu offrirai un altro covone, il covone del grano, del frumento”. Guarda un po’, che cosa ti fa pensare? L’orzo da una parte, il frumento dall’altra, sembra come indicare, così almeno dicono i commentatori di questo precetto, sembra quasi indicare una gradualità nella crescita, nella comprensione del dono di Dio, cosicché alla fine, nella pienezza, quando il grano è maturo, l’uomo possa offrire qualcosa che è degno del suo lavoro e della grazia che Dio ha dato. Se voi prendete questa mitzvah, questo comandamento, e lo rimettete nell’insegnamento di Gesù quando parla del seme, del seminatore, delle messi, del grano che deve essere mietuto, noi abbiamo messo la falce in mano alla morte e abbiamo detto che la mietitura è un momento tremendo, di sangue, il ventilabro, neanche sapete cos’è però, ci farà male a tutti questo ventilabro, semplicemente distillerà ciò che è buono secondo Dio e si scarti ciò che non appartiene alla bellezza della nostra chiamata. Ma di più: prova a pensare all’agitazione dell’orzo, sapete, questo covone di orzo veniva alzato e poi agitato, sembra quasi dire tutto il culto di un popolo che sta cercando di riconciliarsi con Dio grazie alla Torah che gli è stata data, ma un covone di grano viene alzato, viene innalzato fino a Dio nel Tempio perché Dio sciolga il proprio cuore a favore dell’uomo. Questo covone di grano maturo è Cristo, possiamo intravvederlo, possiamo pensarlo, i padri spesso fanno la reinterpretazione allegorica della Scrittura e vanno a rileggere con la chiave di Davide, con Cristo, tutte queste cose che sembrano apparentemente così distanti da noi. Dunque alla festa di Pentecoste è legato il dono della Torah certamente, ma anche la maturità dell’uomo che ha fatto questo percorso, è legato l’insegnamento di Dio, quasi il possesso della sapienza di Dio, ma anche la capacità dell’uomo di ricevere questo dono. Allora abbiamo fatto qualche passo e abbiamo visto come questo cenacolo di Pentecoste si comincia a delineare e che cosa c’è nel cenacolo di Pentecoste, che cosa c’è veramente, chi sono i personaggi, qual è la motivazione, qual è il progetto di Dio, forse potremmo già cominciare a dire quello che il cenacolo di Pentecoste non è: non è un miracolo, certamente non è un miracolo, l’importanza di un miracolo è la finalità per cui accade, la Pentecoste non è relativa al motivo per cui accade, la Pentecoste è la forma della Chiesa, come vedremo tra un po’. Mi preme che voi possiate ricollegare tutto quello che precede la rivelazione piena nel compimento, così come dice la Lettera agli Ebrei, visto che Dio ha parlato molte volte e  in molti modi ai nostri padri per mezzo dei profeti. Prima che parli a noi per mezzo del Figlio, rendiamoci conto che tutto ciò che Dio fa non è casuale, che tutto ciò che Dio fa non è un miracolo, Dio porta avanti fedelmente un piano e nella sua bontà e misericordia fa in modo che, portando avanti questo piano, l’uomo conosca le tappe di questo piano, aderisca al bene di questo piano addirittura con la propria fatica, col proprio lavoro, come diciamo nella celebrazione Eucaristica: “Benedetto sei tu Signore Dio dell’universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane frutto della terra ma pure del nostro lavoro” tu ce lo hai dato, la terra in qualche modo ce lo consegna perché noi abbiamo partecipato con te, perché tu ci hai dato la capacità, la dignità di partecipare con te non tanto alla creazione ma alla significazione di tutte le cose che tu hai creato, ci hai chiamati ad un compito incredibilmente grande. Ci rimane Padre una domanda, Tu ci hai resi degni, Tu Benedetto, ci hai resi degni di fare questa offerta, di trarre dalla terra con il nostro lavoro per farci ritornare nello stato di paradiso dal quale eravamo andati via a causa del nostro peccato, della nostra divisione, Tu ci hai permesso col sudore della fronte di tornare là da dove ci avevi allontanato, Tu sei Benedetto per questo, ma, come dice Pietro (Mc 10,28-30), che cosa avremo in cambio? Qual è il dono vero che tu vuoi farci? Vuoi solo che noi ci convertiamo, che cambiamo vita, che diventiamo migliori? Ma questo lo vogliono in tanti, pure il demonio vuole che noi diventiamo migliori, vi ricordate no? “In due vogliono la salvezza dell’uomo, Dio e il diavolo ma il diavolo la vuole subito per mettere l’uomo a disagio”, Dio invece ti spiega la sua volontà nel corso delle epoche perché l’uomo gradualmente giunga là dove Lui lo sta aspettando e non lo lascia solo in questo piano. Allora che cosa ci dà in cambio? Il centuplo quaggiù e l’eternità insieme a persecuzioni, quelle Dio le abbiamo viste, quelle le abbiamo conosciute bene, l’eternità non ce la sappiamo immaginare, il centuplo quaggiù che cos’è? La vita eterna ed il centuplo, anche se noi non sappiamo che cos’è la vita eterna, possiamo rettamente pensare che sia speculare al centuplo, cioè se la vita eterna è il godimento di Dio nella visione beatifica, questo centuplo deve assomigliargli, perché il dono di Dio non è parziale, il dono di Dio è contenuto, direbbe San Paolo (Ef1,14;  2Cor 1,22; 5,5) , come una caparra al centro della nostra vita, così Paolo chiama lo Spirito Santo. Dunque questo centuplo deve essere in qualche modo una caparra per noi, poi nella visione beatifica sapremo esattamente di che si tratta. Andiamo a vedere come questo mistero si dipana nella storia della nuova economia, del Nuovo Testamento. Abbiamo delineato alcune cose, ci rimangono alcune cose dell’Antico Testamento che ci fanno entrare nella rivelazione piena di questo mistero da parte di Cristo. E quali sono? Una certamente quella di Ezechiele, che dice: “Verrà un momento in cui questo insegnamento, queste parole che sono scritte sulle tavole di pietra, Io le scriverò sulle tavole del vostro cuore, per farlo Io vi darò un cuore di carne” (Ez 11,19; 36,26). Che cosa sta dicendo probabilmente Ezechiele? Proviamo a guardarlo. Certo era scritto sulle tavole di pietra e così era stato trasmesso, così l’hanno conosciuto, il popolo di Israele nel deserto, e lo ha osservato, il popolo di Israele, proprio come una Legge scritta su tavole di pietra, che ha una grande sapienza ma che rischia di rimanere inanimato, cioè che non ha la capacità sempre di aprirci ad un godimento autentico. Questo insegnamento è ancora solamente scritto, non è diventato ancora vivente ma quell’insegnamento scritto, noi lo sappiamo, quella parola che era in principio, che era presso Dio, che viene da Dio e che è Dio (Gv 1), quella parola è venuta in mezzo a noi, ha preso la nostra carne mortale ed è lo Spirito che ci permette di riconoscerla, dunque quella Legge scritta sulle tavole di pietra arriva fino a noi come una parola vivente, come una parola vivente come noi, questa è la meraviglia, perché se fosse scritta ancora su tavole di pietra, noi dovremmo ancora cercare Dio da qualche parte, da quando è stata scritta al centro del nostro essere, cioè sul nostro cuore, là dove risiedono i nostri pensieri, questa parola vive con noi, vive con noi! Allora ti ricordi che cosa avevamo detto prima? Avevamo detto che noi, fatti a immagine e somiglianza di Dio, certo non siamo Dio ma siamo qualcosa che è, come dice un padre della Chiesa, capace di Dio, dunque c’è in noi un’antenna, un recipiente, qualche cosa che può contenere, se così si può dire, Dio in qualche modo. Cosa, la sua persona? La sua essenza? Forse la sua sostanza? No, ma una prerogativa che nella sua sostanza ha un carattere personale. Qual è? Lo Spirito. Lui ha un carattere personale. E che cos’è lo Spirito in seno alla Trinità? Nient’altro che l’amore tra il Padre e il Figlio. Dunque noi abbiamo una prova certa di questa presenza tutte le volte che sperimentiamo, che accogliamo, che celebriamo, in qualche forma questo dono che chiamiamo Amore. Certamente stiamo parlando non di un sentimento, stiamo parlando di un principio vitale, lo stesso con il quale Dio  non solo ci ha pensati ma ci ha chiamati, non solo ci ha chiamati, ma ci ha predestinati ad essere conformi al suo Figlio, e non solo ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine del suo Figlio, ma ci ha anche resi giusti per questo, ci ha messi nelle condizioni non solo di poterlo desiderare, ma esserlo, e giustificandoci, ci ha mostrato la finalità della nostra vita, la vita eterna. Il centuplo allora è questa scoperta di venire in qualche modo da Dio: di essere pensati da Lui, di essere giustificati da Lui, sostenuti da Lui, addirittura di avere qualche cosa in noi che appartiene a Lui. Questo ci toglie per sempre dalla solitudine, dalla disperazione, dalla dispersione dei pensieri, dei sentimenti e ci riconduce al centro del progetto: non siamo dei servi, siamo dei figli (Rm 8). Ce ne siamo resi conto perché c’è presso il Padre un disegno per ciascuno di noi, c’è un disegno di amore che si manifesta proprio attraverso questa giustificazione. Allora il centuplo si va sgranando, diciamo così, manifestando, aprendo nella nostra esistenza finché un giorno sarà contemplabile come qualcosa di concreto, come un’immagine vera di cui adesso non disponiamo. Ma di che stiamo parlando? Chi è che ha la capacità di riprodurre in noi l’amore di Dio e di metterci il desiderio e la possibilità di raggiungerlo? Chi opera dentro di noi? Una Legge di Dio scritta nel nostro cuore, al centro del nostro essere, noi potremmo dire: “Certamente questo lo abbiamo visto nel Figlio di Dio”, è vero questo? Certo, lo abbiamo visto nel Figlio di Dio, ma dobbiamo ricordarci una cosa: che il Figlio di Dio, come una luce, è entrata nelle tenebre ma le tenebre non l’hanno accolta, solo a quelli che l’hanno accolta ha dato il potere di diventare figli di Dio, quelli che né da volere di sangue né da volere di carne ma da Dio sono generati (Gv 1), cioè quelli che hanno la loro finalità già inscritta all’inizio del progetto d’amore di Dio. Come lo abbiamo saputo? Lo abbiamo saputo quando il Figlio di Dio ce lo è venuto a raccontare, ce lo ha raccontato in molti modi, ce lo ha raccontato riprendendo queste profezie dell’Antico Testamento ed attualizzandole, ce lo ha raccontato mettendoci a parte della sua vita e mostrandoci qualcosa della vita eterna, persino nei prodigi che ha compiuto. Egli dice cominciando la sua vita pubblica: “Lo Spirito del Signore è sopra di me per questo mi ha consacrato con l’unzione” (Lc4,14-20), sta citando Isaia (Is 61), ha aperto il rotolo di Isaia nella sinagoga di Nazareth, a casa sua, creando scandalo e scompiglio presso quelli che o conoscevano come uno qualsiasi, come uno di loro. Che sta dicendo Gesù? Che Lui è lo Spirito? Lo Spirito di Dio, noi lo sappiamo, era stato protagonista della nascita di Gesù, dell’incarnazione del Verbo, del suo concepimento, perché si era recato in una piccola casa di Nazareth, per dire ad una Vergine, attraverso l’angelo, che avrebbe concepito il Figlio dell’Altissimo (Lc 1,26-38), nell’incarnazione del Verbo noi sappiamo che il Verbo si spoglia, lo abbiamo detto prima, della sua divinità, in qualche modo entra nella nostra umanità, ma questo Verbo, quando entra nell’umanità, ha lo Spirito di Dio? Lo Spirito di Dio lo accompagna, lo Spirito di Dio lo conduce, lo Spirito di Dio è presente nella sua vita terrena ma non è ancora unito al Figlio di Dio. Lo so che questa cosa ti scandalizza, ma c’è un momento in cui lo Spirito di Dio entra finalmente nella storia di Gesù ed è il momento in cui Gesù, entra nell’acqua del Giordano ed esce fuori nel suo battesimo e allora che lo Spirito in forma di colomba, cioè in forma di una realtà che non ti è chiesto di immaginare, per dire colomba avrebbe potuto dire qualsiasi altra cosa, ancora una volta è come al roveto ardente, qualcosa che tocchi e non tocchi, capisci e non capisci, vedi ma non vedi. Una cosa sappiamo, che chi ha accolto all’inizio l’annuncio dell’angelo e ha percepito questa operazione dello Spirito nella propria esistenza, fa qualcosa che ci insegna a disporci rispetto al piano di Dio, cioè si mette ad attendere, segue quelle poche notizie che l’angelo le ha dato, va a trovare Elisabetta e finalmente proclama magnificando Dio ciò che il piano di Dio pensato nei secoli sta per realizzare (Lc 1,46). È come se ci stesse dicendo: “Se volete sapere come lo Spirito agisce venite qua, io sono colei che attende l’opera dello Spirito e che collabora all’opera dello Spirito”. Per certi versi, fino alla nascita di Gesù, chi volesse vedere lo Spirito, non vi scandalizzate, dovrebbe guardare il volto della Vergine Maria, perché è l’unica che ha con Lui un’esperienza così speciale. Abbiamo detto, tutti gli anni della vita nascosta, lo Spirito guida e come dice Luca (Lc 2,40; 2,52), fa in modo che il Figlio cresca in sapienza e grazia, cioè lo Spirito si incarica diri-insegnare la Torah a chi ha deciso di dimenticarla per amore, chi incarnandosi ha deciso di rinunciare alla conoscenza di Dio paradossalmente, scende dalla torre di Babele per parlare le nostre lingue, impara le cose che conosceva, le impara come le imparerebbe ogni uomo né più né meno. Solo una cosa Egli non possiede che l’uomo ha: il sospetto. Il sospetto che ciò che Dio gli sta mettendo davanti non sia buono, questo non ce l’ha, si fida volentieri, non ha in Sé il peccato, non è diviso in Se Stesso, vero Dio, vero uomo, non lo sa ancora, è un paradosso, non lo sa ancora ma lo sta gradualmente scoprendo, lo mostrerà dopo il battesimo, mostrerà la sua autorità davanti allo spirito del male che era stato l’artefice, l’autore della scissione dell’uomo e di ogni relazione tra gli uomini e finalmente si consegnerà al mondo perché il mondo lo incontri, perché lo tocchi come l’emorroissa (Lc 8, 43-48), perché lo veda come il cieco che acquista per la prima volta la vista (Gv9), perché lo ami come la donna che gli lava i piedi con le lacrime e glieli asciuga con i capelli (Mc 14,3-9; Mt 26, 6-13; Gv 12, 1-8), si mette nelle condizioni di essere toccato, il Verbo della vita, come dice Giovanni: “Ciò che i nostri occhi hanno veduto, ciò che le nostre orecchie hanno sentito, ciò che le nostre mani hanno toccato, di questo siamo testimoni” (1Gv 1,1). Allora questo Verbo, ormai pieno dello Spirito, mostra agli uomini qual è la via per tornare a casa, lo fa attraverso prodigi, miracoli, insegnamento, attraverso l’obbedienza al Padre, attraverso l’obbedienza alle autorità, nato sotto la Legge, nato da donna (Gal 4,4) segue tutto, passo passo, tutto ciò che la Legge prescrive per Lui che è un israelita e poi ad un certo punto mostra il volto nascosto della Legge, mostra l’autore della Torah, mostra lo Spirito agire in un modo veramente nuovo e lo fa agitando il covone, salendo in croce, la prima ascensione che fa Gesù, sale in croce è elevato da terra, elevato sopra uno strumento di morte, e chi lo guarda vede ancora un covone di orzo, cioè una realtà che ancora non si può credere. Che dicevano gli israeliti quando lo vedevano in croce in quelle condizioni e leggevano: “Questi è il Re dei Giudei”? Si coprivano il volto. Davanti a lui ci si copre il volto perché è sfigurato il suo aspetto (Is53,13-14), è uno scandalo, si è lasciato portare come pecora muta davanti ai suoi tosatori (Is 53,7), non ha pronunciato parola. Ma questa Parola che non pronuncia una parola, quale autorità mostra? Poi finalmente la morte, poi finalmente la resurrezione, è uscito dall’Egitto insieme ad un popolo nuovo e lo mette nelle condizioni di sperare la mietitura seguendolo, passopasso, per cinquanta giorni fino alla Pentecoste. Ma prima della Pentecoste succede qualcosa di strano: viene di nuovo agitato il covone, viene agitato nel momento in cui Gesù ascende al cielo, ve lo ricordate? Gli Atti degli Apostoli dice che Gesù portò gli apostoli in un luogo alla distanza percorribile nel giorno di Sabato (At 1,12) guardate come l’obbedienza alla Legge non è mai infranta, mai, in nessun luogo. Come per dire: “Adesso comincia un riposo sabbatico che non finirà più, che sarà celebrato per sempre nella gloria del Padre, comincia oggi”, sale al cielo e gli angeli guardano questi uomini e dicono: “Uomini di Galilea ma perché state a guardare fino al cielo? Colui che è salito al cielo di tra voi, lo vedrete tornare come lo avete visto salire” (At 1,11). Questa promessa, questa seconda elevazione nei confronti dell’uomo, accade in due occasioni: la prima occasione è quella che noi celebriamo, anzi diciamo che l’ultima occasione sarà quando tornerà, sarà il giorno in cui tornerà senza nessuna relazione con il peccato a vedere se c’è ancora la fede sulla terra (Lc 18,8), cioè se l’uomo capace di Dio veramente lo sta spettando, se ne sta celebrando il ritorno, se la beata speranza è veramente beata e se è veramente una speranza, cioè un’attesa, o no. Ma prima ancora che questo accada, un evento che è nascosto ai nostri occhi e anche ai suoi, solo il Padre lo conosce (At 1,6-7), prima che accade una venuta dal cielo, accadrà pochi giorni dopo l’ascensione, sette giorni dopo, un modo nuovo per entrare nella storia e nella vita degli uomini: la discesa dello Spirito Santo nel cenacolo. Allora guarda bene: qual è il cenacolo della Pentecoste? Il cenacolo della Pentecoste, tu lo capisci, non è più un’occasione così, un momento occasionale in cui ad un certo punto questi stavano là a pregare con Maria, magari dicevano il rosario, e così hanno sentito un rumore, un rombo di tuono come i padri nel deserto nel monte Sinai, e si sono trovati davanti ad una cosa incomprensibile. No: stavano attendendo ciò che ci si può attendere, ciò che gli era stato chiesto di attendere, avevano ricominciato a guardare alla storia e finalmente il Signore era tornato, stavolta però non più davanti a loro, non più a fendere la storia come quel giorno in cui uscendo dalla sinagoga di Nazareth era passato in mezzo agli uomini che volevano buttarlo giù dal burrone, stavolta invece era venuto in mezzo a loro per stare dentro di loro. Tu dici: “Per frammentarsi dentro di loro? Queste fiamme di fuoco vanno una qua, una là, uno ce ne ha di più uno ce ne ha di meno come noi facciamo nelle nostre assemblee, come noi pensiamo la chiesa?” No. Queste fiamme di fuoco sono una sola fiamma di fuoco, lo stesso roveto ardente che in Maria ha mostrato di non consumarla, diventa ora un roveto ardente che non consuma la vita degli uomini ma è promessa alle generazioni. Allora tu capisci che in questo momento in cui finalmente lo Spirito ha manifestato la finalità della sua venuta in mezzo agli uomini, c’era bisogno di un testimone, c’era bisogno di qualcuno che dicesse: “Certo, si, è così, io lo so che è così!”. E chi è? Ancora Maria, ancora Maria, la Vergine, grande protagonista di questa storia con lo Spirito, sta là quasi silenziosa a dire agli apostoli: “Eh si, si era proprio così, io l’ho portato, io ho conosciuto il tempo in cui Lui ha accettato di conoscere la verità tutta intera, io c’ero quando Lui ha manifestato questa verità, io ci sono ora, testimone della veridicità di tutto questo piano pronta ad accompagnarvi tutte le volte che la vostra vita diventerà una chiesa, una manifestazione della potenza dell’Altissimo”. Sapete, noi siamo qua vicino alle reliquie degli apostoli Filippo e Giacomo, questi apostoli, soprattutto Filippo che ci somiglia tanto, che dice a Gesù: “Facciamola breve, mostraci il Padre e ci basta” (Gv 14,8),  “Ma qual è questa via, qual è questo itinerario? Qual è questa ascesa, qual è questa porta? Non sappiamo neanche dove vai!” gli aveva detto Tommaso (Gv 14,5). Dice Gesù a Filippo: “Filippo da tanto tempo sono con voi e ancora non mi hai conosciuto? Chi ha visto me ha visto il Padre”. Ma si può dire questo? Si può dire che chi vede il Figlio vede il Padre? O forse si può dire: “Chi ha visto agire il Padre nel Figlio ormai sa che da Figlio può conoscere il Padre ed Io questo sono venuto a fare, a farvi figli” direbbe Gesù (Gv 14,9-14), “Non servi, non schiavi, figli, chi sarà l’autore di questo? Il mio Spirito, proprio il mio Spirito, tutto ciò che mi lega al Padre”. Allora la preghiera: “Padre Io ho pregato pure per questi, fa che tornino ad essere una cosa sola come siamo una cosa sola io e te” (Gv 17). Allora questo diventa il nuovo progetto, una creazione nuova che prende lo spunto da questo cenacolo, un modo di conoscenza e di pratica della parola, dei comandamenti di Dio finché tutto non sia di nuovo compiuto, finché Dio non sia in tutti. San Paolo, che recepisce questo insegnamento, che lo vede, che lo contempla, lo sa, lo conosce, lo apprezza, lo accoglie, lo vive, dice: “Io ero un fariseo, facevo tutte le cose che prescrive la Legge, andavo di qua, andavo di là, quello non lo facevo, quell’altro nemmeno, poi ho considerato tutte queste come spazzatura di fronte alla sublimità della conoscenza del Figlio di Dio (Fil 3,8). Allora mi sono detto:  “Allora Tu non sei più davanti a me, Tu non sei più in alto” e allora mi sono detto: “Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me, questa vita che vivo nella carne la vivo nella fede del Figlio di Dio che ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Che sta dicendo San Paolo? Che anche sta concependo il Cristo? Eh si, in qualche modo. Sta dicendo San Paolo che Cristo ormai vive nella sua vita, che lo Spirito, caparra della presenza del Figlio di Dio, gli è stato donato, lo ha raggiunto, abita in lui, parla attraverso di lui, evangelizza, soffre perfino, se possiamo dirlo, con lui tutte le pene che Paolo ha sofferto. Allora questi discepoli, Filippo e Giacomo, che noi celebriamo, che noi ricordiamo, le cui reliquie sono qua, sono reliquie di uomini che hanno visto la Vergine Maria, che hanno ricevuto questo dono dal cielo, questo centuplo, e che lo stanno lasciando nelle vostre mani attraverso la chiesa, perché voi siate il cenacolo della Pentecoste. Un autore che noi conosciamo, nella premessa al libro “Maria ed il regno che verrà”, vi ricordate, di padre Forlai, mette nella premessa la Scuola di Preghiera come una Pentecoste feriale, ma la Pentecoste feriale è la chiesa: questi consegnano a noi questa speranza, ormai hanno conosciuto Cristo, ormai hanno conosciuto lo Spirito Santo, ormai hanno visto ciò che si poteva vedere di Lui, lo splendore del volto della Vergine Maria certezza dell’incarnazione del Verbo, della sua passione morte e della sua resurrezione, tanto certa che quel Sabato, lo sapete, non pronunciò neanche una parola, inaugurando il silenzio nella storia, quel silenzio che ci accompagna fino al luogo in cui incontreremo anche noi Cristo risorto. Vorrei che questa Pentecoste sia per voi l’occasione, in questo momento della storia, di capire che l’amore celebrato è unificazione degli animi, è unione, comunione di intenti, è unione nello Spirito, è apertura all’altro da qualsiasi parte venga, qualsiasi fede abbia, perché non c’è niente che possa dire di ignorare la presenza dello Spirito tra tutte le cose create, noi ne siamo i testimoni, noi ne siamo i profeti, chissà forse un giorno ne saremo anche i martiri.

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